Belle Epoque 2.0

“Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell’altra parte — a farla breve, gli anni erano così simili ai nostri, che alcuni i quali li conoscevano profondamente sostenevano che, in bene o in male, se ne potesse parlare soltanto al superlativo. “
Charles Dickens – Le due città

A volte penso che, se c’è una caratteristica distintiva di questa strana epoca che stiamo vivendo e che, in mancanza di meglio abbiamo stabilito di chiamare “post modernità“, è l’ idea che non si stia andando da nessuna parte.
Provo a spiegarmi.
Sono cresciuto in un periodo (diciamo nella seconda metà del Novecento, e più non dimandate) dominato prevalentemente dall’ idea che si andasse da qualche parte. Progresso era parola d’ ordine in ogni campo: scientifico, sociale, morale. L’ aria era satura di evoluzione, sviluppo, crescita, tutti termini che suggeriscono un movimento ascensionale. Ottimismo nell’ aria, ed i romanzi di fantascienza avevano tutti il lieto fine.
Detto in altri termini: il meglio deve ancora venire. Stiamo andando dritti verso l’ età dell’ oro.

Questo non è affatto un modo di pensare scontato.
Per la gran parte delle civiltà antiche, al contrario, l’ età dell’ oro apparteneva al passato remoto, le epoche che si succedono segnano una progressiva ineluttabile decadenza. In altre epoche non ci si poneva il problema, semplicemente, il tempo pareva essere un cerchio, senza inizio e senza fine.
L’ Illuminismo ha – tra le altre cose – introdotto questo: la fiducia che, col sostegno della ragione, si potesse costruire un futuro migliore di qualsiasi passato. Costruire, non semplicemente attendere. Ed in fondo, le utopie del Novecento a questo si riducevano: la convinzione che la Storia avesse una direzione e che su questa direzione si potesse intervenire, assecondandola o correggendola.

Il post moderno a me pare che rispecchi precisamente la definitiva perdita di questa innocenza, la dolorosa percezione che sì, va bene, magari ci stiamo anche muovendo, ma verso dove?
Finite in malo modo le ideologie si è persa anche la fiducia che sia possibile disegnare una società ideale, né sembrano essere sopravvissuti valori condivisi tali da meritare che si combatta per difenderli.

E sarà poi vero che ci stiamo muovendo ?
Al di là del progresso tecnico e scientifico si percepisce, quando non si teorizza addirittura, che siamo ad una specie di capolinea. Il capitalismo ha conquistato il mondo, la globalizzazione è irreversibile, non c’ è nessun altro posto dove andare. Un famoso saggio di Fukuyama uscito nel 1992 teorizzava proprio, già nel titolo, “La fine della Storia “. Capitalismo, liberalismo, democrazia rappresentativa: questo è il punto di arrivo. Una volta che tutto il mondo abbia adottato questi semplici principi occidentali, non rimarrà nulla da fare, nessun posto dove andare, nessuna possibilità di ulteriore evoluzione. Fine della Storia. Semplice, no ?

A dire la verità, non è la prima volta che si pensa di essere giunti alla fine della Storia. L’ ultima volta accadde giusto alla fine dell’ Ottocento, il periodo non a caso definito “Belle Époque”.
La scienza sembrava avere spiegato tutto, a parte qualche decimale ancora da sistemare, le guerre in Europa erano finite da trent’anni, le comodità moderne venivano introdotte a ritmo continuo, la produzione industriale cresceva, l’ Occidente – l’ Europa in particolare – dominava il mondo. Non restava che godersi la vita.
Oddio, a voler ben guardare, qualcosa che non tornava c’era. Il proletariato, per esempio. I nazionalismi ed i patriottismi, per esempio. E certa stampa che soffiava sul fuoco. La polemica in Francia sulla decadenza contemporanea puntava il dito contro la crisi del governo parlamentare, i disordini nei territori coloniali, il tasso di natalità in discesa, l’ arte degenerata ed incomprensibile. E qui mi fermo con le analogie.

E oggi ?
La disuguaglianza di certo non manca, come sappiamo.
La globalizzazione ha prodotto un enorme trasferimento di ricchezza verso i paesi emergenti, che hanno visto aumentare anche di molto il reddito pro capite, ma di questo trasferimento ha fatto le spese il ceto medio dei paesi avanzati, che si è trovato impoverito ed arrabbiato. Un miliardo di nuovi lavoratori sul mercato qualche sconquasso lo creano, lo si vede bene dai grafico ideato da Milanovic:

Ora, già Aristotele nella Politica aveva chiaro che “la comunità statale migliore è quella fondata sul ceto medio e che possono essere bene amministrati quegli stati in cui il ceto medio è numeroso e più potente, possibilmente delle altre due classi (…). Per ciò è una fortuna grandissima che quanti hanno i diritti di cittadino possiedano una sostanza moderata e sufficiente, perché dove c’è chi possiede troppo e chi niente, si crea o una democrazia sfrenata o un’oligarchia autentica, o, come risultato di entrambi gli eccessi, una tirannide”.

Il ceto medio è arrabbiato soprattutto con la politica, che non ha impedito questo sconquasso, ed il conseguente loro impoverimento. Ora, i politici hanno certo mille colpe, ma cosa può mai fare una politica organizzata a livello nazionale nei confronti di una globalizzazione economico-finanziaria che opera a livello multinazionale ?
L’ unica mossa razionale potrebbe essere quella di trasferire la politica allo stesso livello internazionale dell’ economia, integrando sempre più, ad esempio, l’ Europa. L’ esatto contrario di quello che perseguono i populisti europei.

Come finì la Belle Époque, giusto un secolo fa, lo sappiamo bene, e non voglio nemmeno pensare ad un parallelo simile.
Mi viene però da pensare che, mentre negli anni 50 andavano di moda i “ribelli senza causa”, che poi era il titolo originale del film “Gioventù bruciata”, oggi abbondiamo di cause senza ribelli.

Michael Walzer, uno dei pochi filosofi militanti superstiti, riassume così la questione:

“Le persone a cui dobbiamo rivolgerci sono un gruppo razzialmente variegato. E variegato anche economicamente: ci sono dentro disoccupati, anziani con pensioni inadeguate, lavoratori part-time, operai delle regioni deindustrializzate, (…) lavoratori senza tutele sindacali e pochi benefit, e poveri delle aree rurali, tutti spaventosamente vulnerabili, che aspettano con angoscia la prossima recessione.”

M. Walzer – Robinson 15/1/17

Non che ci sia tanto da sorprendersi. Il potere oggi è sostanzialmente potere finanziario delocalizzato, non c’e un Palazzo reale da prendere d’ assalto, se ne sono accorti presto anche i manifestanti di Occupy Wall Street. Mentre occupano, gli affari continuano come se niente fosse.
Non c’è un potere da aggredire, ma non c’è neppure un soggetto organizzato, non ci sono rivoluzionari all’ orizzonte, e soprattutto, come si è visto prima, non c’è neppure all’ orizzonte un’ idea nuova che possa rappresentare l’ alternativa.
Almeno per il momento.

Un discorso retorico

 

Chissà se c’è qualcuno che leggendo il titolo non abbia avuto una reazione negativa, di diffidenza per non dire di fastidio ? Immagino sia naturale pensare “ci mancavano solo i discorsi retorici, siamo a posto”. Reazione naturale, direi.

A tal punto è caduta in basso la reputazione di questo termine, da essere ormai usato sostanzialmente come insulto. Un discorso retorico è un discorso aulico, pomposo, altisonante. E al tempo stesso miseramente privo di contenuti. Una roba da palloni gonfiati, o politici di mezza tacca, chiacchiere e distintivo.

Il dizionario recepisce puntualmente. Retorico = “dicesi di discorso o scritto, caratterizzato da ricercatezza formale ma privo di validi contenuti. Ampolloso. Per estensione, dicesi di comportamento superficiale, convenzionale, artificioso ed esteriore”. Non ci va leggero, il dizionario.

Non è sempre stato così, però, tutt’ altro. Prima di ridursi a disciplina “traviata”, la retorica era una signora parola, rispettabile, onorabile e piena di ogni virtù. E non parlo tanto dell’ antica Grecia dove la retorica fu inventata, insieme a quasi tutto l’ uomo occidentale. Parlo di tempi molto più recenti, grosso modo fino al Rinascimento, quando l’ educazione di qualsiasi giovanotto che ambisse a diventare una persona di cultura passava necessariamente attraverso lo studio di alcune discipline specifiche, dette “arti liberali”.

Quattro di queste discipline erano relative alla filosofia naturale, e formavano il cosiddetto “Quadrivio”. Si trattava di aritmetica, geometria, astronomia e (curiosamente…) musica.  Per quanto non molti al giorno d’ oggi considererebbero queste discipline (astronomia a parte) come “scienza della natura”, tuttavia esse rimangono tuttora parte del bagaglio dello studente medio.

Altre tre discipline avevano a che fare con le cosiddette “arti del discorso” e costituivano il cosiddetto “Trivio” (termine che anch’ esso si è un filino involgarito, ma non divaghiamo…). Si trattava di grammatica, retorica e dialettica.

Delle tre, la grammatica gode tuttora di ottima salute, e non potrebbe essere altrimenti, la grammatica tratta delle regole per mettere insieme le parole, nomi, aggettivi, verbi, in modo da trarne frasi comprensibili. Niente di più e niente di meno che una tecnica di base. Una frase come “il triangolo hanno tre lati” è grammaticalmente scorretta, mentre è grammaticalmente corretta la frase “il triangolo ha quattro lati”. La grammatica non si occupa del contenuto delle frasi, ma solo della struttura formale di esse.

Anche la dialettica è sopravvissuta, seppure certi eccessi post-idealisti ed anti-idealisti ne abbiano parecchio offuscato il prestigio. La dialettica è arte del ragionare, razionalità applicata come metodo di indagine filosofica, è, logica che intercorre, “dià-logos” ovvero dialogo insomma, e dialogo filosofico in particolare, alla ricerca di una qualche verità, con o senza la maiuscola. E la filosofia in qualche modo si insegna ancora, anche se l’ attenzione è assai più rivolta alla “storia della filosofia” piuttosto che al contenuto, all’ indagine sulle questioni fondamentali. Un approccio un po’ distorto, come parecchi filosofi importanti non hanno mancato di osservare.

“Al posto di una profonda interpretazione dei problemi eternamente eguali, è intervenuta lentamente una valutazione storica, anzi addirittura una ricerca filologica: si tratta ormai di stabilire che cosa abbia pensato o non abbia pensato questo o quel filosofo(…). Ora quindi la ‘filosofia come tale’ è senza dubbio bandita dall’università. (F. Nietzsche)

“Se la filosofia consistesse nel problema di scegliere fra teorie rivali, allora sarebbe ragionevole insegnarla storicamente, Ma se questo non è vero, allora è uno sbaglio insegnarla storicamente, perché non è affatto necessario farlo; possiamo affrontare direttamente l’argomento, senza alcun bisogno di considerare la storia.” (L. Wittgenstein)

Così come la filosofia è stata sostituita nelle scuole dalla storia della filosofia, così la dialettica viene studiata più come un monumento antico, un reperto archeologico, piuttosto che come uno strumento critico vivo, da esercitare.

La grande assente dagli studi moderni invece è proprio lei, la retorica. Sparita, scomparsa, introvabile nelle scuole di ogni ordine e grado. Non la studia più nessuno, ed a buon diritto, si direbbe, se per retorica  s’ intende quello che dicevamo all’ inizio. Chi ha bisogno di imparare a fare discorsi ampollosi, aulici e vuoti ?

Il punto è che la retorica non è affatto questo. La retorica è fondamentalmente una teoria generale del discorso persuasivo, il suo scopo essendo, per dirla con Aristotele, “non il persuadere ma il vedere i mezzi di persuadere che vi sono intorno a ciascun argomento”; ovvero “la facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere”.

Lo studio della retorica è simile alla frequentazione di una palestra, gli allievi si sottopongono ad esercizi che non hanno altro fine pratico che metterli in condizione di padroneggiare al meglio tecniche argomentative di volta involta più efficaci per sostenere un argomento, indipendentemente dall’ argomento stesso.

Non è scopo della retorica quello di perseguire la verità, ma quello di sviluppare la conoscenza delle tecniche del discorso. E’ evidente che la padronanza delle tecniche retoriche è bagaglio fondamentale di ogni buon avvocato, lo scopo di qualsiasi arringa è proprio quello di sviluppare nella maniera più convincente possibile gli argomenti in favore del proprio patrocinato. La contrapposizione delle arringhe in un processo non è il momento della ricerca “oggettiva” della verità, ma è la fase fondamentale che la precede.

E tuttavia nei piani di studio delle facoltà di giurisprudenza  ho cercato invano un corso di retorica. Così come poche tracce si trovano nelle Facoltà di Filosofia. La poca retorica che ancora sopravvive si rintana nelle Facoltà letterarie, generalmente malvista e ridotta a servire da ancella alla Linguistica, oppure travestita da ragazzina alla moda e si presenta, guardata con altrettanto sospetto, nei corsi di scrittura e comunicazione.

Un destino triste, per una regina delle arti del discorso.

Fondamentalisti e riluttanti

“(…) parlare di guerra è puro nonsenso. Serve solo a mobilitare irrazionalmente l’ opinione pubblica interna per ragioni di lotta politica (…)

La campagna per la guerra è una formidabile propaganda per l’ arruolamento all’Islam violento, un regalo ai nostri nemici, il cui obiettivo è il compattamento integralista di tutto l’ Islam”

G. Zagrebelski – Repubblica 12/1/14

Non mi piacevano le vignette di Charlie Hebdo, così come non mi piaceva l’ Ultima Tentazione di Cristo, pur da ateo ho sempre provato fastidio per la blasfemia, credo che ciascuno di noi abbia qualcosa che considera sacro e che non vuole vedere profanato. Per me, forse, è il silenzio di certe vette.

Scherza coi fanti e lascia stare i santi, amava ripetere la mia religiosissima nonna, buonanima. Io da parte mia provo persino fastidio se  mi capita di ascoltare una bestemmia, ma forse quella è più che altro una questione di logica. Se credi in Dio (vorrei dire al bestemmiatore) forse non è cosa buona per te insultarlo, e se non ci credi, chi stai insultando ? E’ illogico, ecco tutto.

Detto questo, le convinzioni di ciascuno e l’ apprezzamento o meno di quelle vignette sono elementi del tutto irrilevanti. Non è questo il punto, semplicemente, e “Je suis Charlie” non significa affatto “mi piace quello che fanno”. Il punto è che , semplicemente, al fanatismo si risponde solo con la difesa, pacifica e ferma, della libertà. I morti li fanno i kalashnikov, non le vignette.

Se cominciamo a disquisire sull’ opportunità o meno di pubblicare una vignetta finiamo dritti dritti a parlare di una cosa che ha sempre avuto un nome preciso: censura, e purtroppo non ci sono vie di mezzo. Chi decide cosa va bene e cosa no, qual’ è il criterio, qual’ è la misura ? Il rispetto ?

In Arabia Saudita in nome del “rispetto per l’ Islam” non puoi mangiare o bere in pubblico durante il Ramadan, portare un crocifisso, entrare in una moschea, dire la messa, andare in giro a testa scoperta se sei donna, mangiare una salsiccia o bere una birra. L’ ideale sarebbe che diventassi musulmano anche tu, e ancorché musulmano, che ti astenessi dall’ aprire un blog. Di vignette poi, non ne parliamo proprio. Qualunque cosa è un’ offesa.

A quel punto, sempre in nome del “rispetto” dovremmo astenerci anche dal fare battute sulla calvizie di Berlusconi, sulla statura di Brunetta o sui dentoni di Renzi, dovremmo evitare le vignette su meridionali, neri, gay, ebrei, immigrati, carabinieri, matti, anziani, disoccupati. Facciamo prima ad abolire la satira, visto che quando si ride, si ride sempre alle spalle di qualcuno.

I sovrani di un tempo non erano certo modelli di illuminata tolleranza, eppure il giullare lo tolleravano, anzi lo incoraggiavano, così come durante il Carnevale era tradizione accettata che si eleggesse il re dei Pazzi a cui era concesso dire impunemente qualsiasi enormità. Perché quei sovrani avevano pur bisogno che qualcuno gli dicesse la verità anche su loro stessi, e sapevano che al fondo di ogni satira un granello di verità c’è, ed il giullare è l’ unico che può permettersi di dirla pubblicamente, quella verità, mentre a tutti gli altri tocca assecondare il sovrano, se non vogliono finire male. I truci tagliagole del fondamentalismo invece no, loro non tollerano la satira. Del resto, non la tollera nessuno che si sia convinto di fare la volontà di Dio, perché  nella loro convinzione non possono e non devono esserci crepe, niente che possa incrinare quella granitica convinzione, neppure l’ ombra del dubbio che quella iperbolica pretesa (fare la Volontà di Dio !) possa in fondo essere un’ enorme fesseria.

Chi è forte tollera la satira e lo sberleffo del giullare, chi lo uccide lo fa perché, in fondo in fondo, qualche senso di inferiorità lo nutre. Una lugubre ferocia non è affatto una dimostrazione di forza.

“Oggi sarebbe necessario che le autorità dell’ Islam francese avessero il coraggio di prendere posizione con forza e senza ambiguità non solo contro la violenza in generale, come hanno già fatto molte volte, ma ance contro la violenza interna alla loro religione, denunciando la parte di oscurantismo presente nel mondo musulmano”

Marc Augé – Repubblica 10/1/14

Quello che c’è di particolare in episodi come questi non è il fatto di essere compiuti da musulmani ma di essere compiuti dichiaratamente in nome dell’ Islam. È proprio per questo che la faccenda non è più un fatto personale o “un’ azione di folli”. Viene generalizzata perché chi lo compie vuole che lo sia. Uccide per dare una lezione, per manifestare qualcosa, e ciò che vuole manifestare in questo caso è appunto l’ Islam. Ora, se qualcuno compie un massacro in mio nome o in nome dei valori in cui credo, trovo naturale alzare la voce per dichiarare, nel modo più netto possibile, “not in my name”. In questo caso molti musulmani l’ hanno fatto, e dovrebbero farlo anche quelle autorità che ancora si nascondono dietro ai distinguo. Qui non c’è niente da distinguere.

Quello che penso io dopo avere valutato i fatti è che è sbagliato saltare alla conclusione populista che “questo è l’ Islam”. Però mi sono convinto che è altrettanto sbagliato concludere nel modo più politically correct che “l’ Islam non ha niente a che vedere con queste cose”. La storia degli attentatori di Parigi raccontata nel post precedente penso che parli da sè.

C’è una componente di rabbia, certamente, e di ribellione ad una emarginazione che appare senza speranza di redenzione. E c’ è persino una componente di narcisismo, nell’ azione eclatante che assicura al suo autore ben più di un quarto d’ora di notorietà: oggi un terrorista può persino farsi intervistare in diretta nel corso della sua azione, come abbiamo visto.

Ma questo non è tutto, e sottovalutare l’Islam radicale è un errore. Gente disposta a sacrificare la propria vita e quella dei propri figli pur di uccidere quanti più infedeli possibile non va presa alla leggera. E di certo, la trovata della Le Pen di reintrodurre la pena di morte per scoraggiare degli aspiranti martiri farebbe sorridere se non denotasse una assoluta incomprensione dell’ intera faccenda.

La verità è che c’è un’ area grigia, una zona torbida dove l’ Islam più fondamentalista (ma non di per se violento) e quello integralista (per sua natura politicizzato) possono facilmente sconfinare nella lotta armata.

Noi italiani di “zone grigie “ ce ne intendiamo. Sarebbe facile citare la collusione o contiguità con la mafia e la camorra, ma io credo che il parallelo più illuminante sia un altro, quello con gli anni di piombo. In quegli anni le Brigate Rosse e le altre formazioni armate rivoluzionarie si resero responsabili di atti di terrorismo che comprendevano rapine, ferimenti, omicidi. Un’ escalation culminata col rapimento e l’ uccisione di Moro. Riguardate le immagini di quei tempi e dite se non trovate analogie, persino nel tono del comunicati. Erano di sinistra le BR ?

Alla gente di destra era persino inutile chiederlo: non sono solo di sinistra, quello è il comunismo, quello vero duro e puro, Lenin in persona applaudirebbe.

Dalla parte opposta si faceva notare che la stragrande maggioranza delle persone di sinistra aborrono la violenza, che le parole d’o della sinistra sono la solidarietà e l’ uguaglianza, che molte vittime delle BR erano di sinistra, ecc. e che, in ultima analisi, quegli atti di violenza danneggiavano proprio la sinistra. Chiaro, no ?

No.

No perché anche lì vegetava l’ area grigia, quella dei distinguo, quella che se si spinge la gente alla disperazione poi non ci si deve meravigliare delle conseguenze. Che, certo, l’ esercizio della violenza è sempre da condannare, ma che dire allora della violenza dello Stato? Compagni che sbagliano, ecco chi erano i brigatisti. Vale a dire che, sbagliando, restano pur sempre compagni. Ed è difficile, pur condannandoli, non comprenderne le ragioni. E se così è, sarebbe davvero da infami denunciarli. Mi spiego ?

«Vidi crollare prima una e poi l’altra delle torri gemelle del World Trade Center. E allora sorrisi».

«Riflettevo su quanto mi avesse sempre urtato il modo in cui gli Stati Uniti si comportano nel mondo; la continua intromissione del vostro Paese negli affari degli altri è insopportabile. Vietnam, Corea, Taiwan, il Medio Oriente, e adesso l’ Afghanistan: in ognuno dei grossi conflitti e delle prove di forza che hanno dilaniato l’ Asia, il mio continente natale, gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo centrale»

M. Hamid – Il fondamentalista riluttante

Non si può ignorare il ruolo prominente che in questa brutta storia svolgono gli Stati Uniti.

La radicalizzazione dei musulmani moderati nelle moschee europee, come dimostra la storia dei fratelli parigini, è stata alimentata dalla pubblicazione delle vergognose foto provenienti dal campo di detenzione di Abu Graib , in Iraq. E tutti hanno notato come nei cruenti video dell’ IS, gli ostaggi occidentali appaiano sempre con una tuta arancione molto, molto simile alle uniformi dei prigionieri di Guantanamo, una macabra rivincita.

Non basta. Lo stesso califfo Al Baghdadi ha iniziato il suo proselitismo politico , dapprima come affiliato ad Al Qaeda, poi in forma autonoma, in un altro campo di prigionia americano in Iraq, del tutto simile ad Abu Graib, chiamato Camp Bucca. Frutti avvelenati della “guerra al terrore “ che George Bush jr dichiarò nel 2001, insomma, e che fu percepita dagli arabi come una una mostruosa ingiustizia.

La storia di Al Qaedanon era stata molto diversa. Avendo avuto una frequentazione costante, per molti anni, del Medio Oriente, sono stato testimone del progressivo inasprimento del sentimento antiamericano, e successivamente antioccidentale, sin dai tempi della prima Guerra del Golfo, quella di Bush padre nel 1990 a seguito dell’ invasione irachena del Kuwait, una guerra che pure aveva motivazioni ben più solide delle fantomatiche armi di distruzione di massa usate a pretesto per la seconda e mai trovate.

“Il primo effetto di una guerra dichiarata genericamente contro l’ Islam sarebbe di combinare in un unico fronte nemico gli islamici che vivono nei nostri Paesi e che, bene o male, vi si sono integrati. (…) Se ci si vuole imbarbarire e dare argomenti all’ Islamismo presso persone che ne sarebbero immuni, questa è la strada sicura (…) come crederemmo che si schiererebbero? Con noi contro l’ Islam o con l’ Islam contro di noi ?”

G. Zagrebelski – Repubblica 12/1/14

Sinistra, sconfitte, futuro, insomma un post fuori moda

Swim out on a sea of faces
Tide of the human races
Oh, an answer now is what I need…

La sinistra ha perso, se non si capisce questo non si capisce nulla di ciò che è successo negli ultimi anni.

Il grande movimento iniziato con la rivoluzione francese è stato  sconfitto dalle forze della restaurazione.

Non stiamo parlando qui di una tornata elettorale nel nostro disastrato paese, stiamo parlando di un movimento storico di respiro plurisecolare che ha coinvolto l’intero Occidente.

Ad onore del vero, dovremmo aggiungere che la sinistra ha recato in sé i germi della sconfitta fin dalla sua nascita, sotto forma di un’ immedesimazione di tipo religioso con le proprie idee, che hanno fatto presto a solidificarsi di conseguenza in ideologia.

Montagne diceva che occorre dare un valore davvero alto alle proprie idee se si è disposti ad arrostire vivo un uomo per esse, e questo è proprio ciò che è successo alla rivoluzione francese, immediatamente tramutata in Terrore, i roghi dell’inquisizione sostituiti da madame ghigliottina, giusto per fare diverso.

Per il resto, avere a che fare con qualcuno convinto di fare il bene dell’umanità non e poi così diverso dall’ avere a che fare con chi ritiene di fare la volontà di Dio. Todorov ha scritto pagine memorabili nel suo libro “Memoria del male, tentazione del bene” su questo male a fin di bene che ha prodotto le più grandi carneficine della storia umana. Non solo a sinistra, ovviamente, questo nemmeno occorre ricordarlo.

Ora, non è certo il caso qui di ripercorrere la parabola del “socialismo reale” dalla rivoluzione russa fino al crollo del muro di Berlino. Basta prendere atto, come si diceva all’inizio, che la sinistra ha perso e che il mondo d’oggi, più che post moderno lo potremmo definire il mondo della post sinistra.

Cosa resta di quel grande movimento partito con l’illuminismo e culminato al grido di “libertà, uguaglianza, fratellanza” ?

La democrazia certamente, quello è un valore che, in Occidente, nessuno mette seriamente in discussione. Eppure, le cose non sembrano funzionare bene, non sembra essersi davvero ricostruito quell’antico senso della “polis” che è alla base dell’ idea stessa di democrazia. Come mai ?

Max Weber aveva capito tutto già alla fine della 1a Guerra Mondiale, quando i totalitarismi del Novecento erano ancora di là da venire.

Che cosa aveva capito Weber ?

Aveva capito le conseguenze del suffragio universale applicato non più ad una polis ma ad una moderna nazione.

Per vincere le elezioni non basta più raccogliere qualche centinaio di voti, ne servono milioni, e questo è un obiettivo al di là della portata del singolo cittadino. Serve una macchina organizzativa presente su tutto il territorio. Cioè serve un partito.

Ma un partito non è un’ entità amorfa, un partito è diretto e controllato da un gruppo di persone. Ed ecco dunque la seconda diretta conseguenza: l’ oligarchia costituita dalle segreterie dei partiti. All’ interno di queste segreterie, emergono i leaders capaci di portare più voti, non quelli che portano più idee. Chi garantisce la vittoria elettorale controlla il partito, e chi controlla i partiti detiene il potere, punto.

È il Parlamento ?

Resta un luogo in cui, appunto, si parla e poi si vota, sulla base di quanto è già stato deciso nelle segreterie dei partiti.

Suona familiare ? A me parecchio.

La libertà è il valore che è probabilmente sopravvissuto meglio ai cataclismi, e talmente bene da essersi sdoppiata. Da un lato è divenuta spirito libertario, rivendicazione dei diritti individuali, dall’ altra liberismo, insofferenza per vincoli, barriere, regolamenti, tutte cose che, tramontate le ideologie, ancora oggi “sanno di statalismo” pur essendo, spesso, semplice buon senso. Certe guerre non fanno prigionieri, ed ecco che la disfatta storica della sinistra apre la strada alle liberalizzazioni, alla globalizzazione. I capitali (non le persone) possono circolare liberamente da uno Stato all’ altro, le merci (non le persone)  possono attraversare le frontiere senza pedaggi o dazi. Tra lo spirito libertario e quello liberista, è del tutto evidente chi abbia vinto. Un potere economico multinazionale è in grado di porsi al di sopra del potere politico di qualunque nazione, di condizionarlo e di non farsi condizionare. Oggi un’ azienda può stabilire la sede legale in un Paese, pagare le tasse in un altro, quotarsi in Borsa in un altro ancora, produrre da una parte e vendere da un’ altra, là dove trovi le condizioni più favorevoli per ciascuna di queste operazioni. Ogni riferimento alla ex Fiat è volutamente casuale.

Di fronte ad un potere economico globalizzato, la politica rimasta pateticamente locale (non vorremo certo considerare entità politica l’ Europa, vero ?) manifesta tutta la sua impotenza. Per non parlare poi del sindacato, il cui sforzo di internazionalizzazione mi pare infinitamente inferiore a quello, già tanto inadeguato, della politica. Di internazionale, praticamente, c’è rimasto solo l’ inno.

E così alle bellicose dichiarazioni, alle minacce di sciopero, le imprese multinazionali e globalizzate rispondono ormai con un’ alzata di spalle, e chi ancora sogna autunni caldi è ora che si compri il maglione.

Ma dei grandi valori che formano l’ ossatura della sinistra, la fratellanza è senza dubbio quello messo peggio. Quando la guerra è perduta e l’ esercito batte in ritirata, giunge l’ ora del “si salvi chi può”. Di fronte all’ erosione generale dei diritti, chi ancora ne ha se li tiene stretti e li difende coi denti, e tanto peggio per chi non li ha, fossero pure la maggioranza.

Che cosa è andato storto ?

Al fondo di tutto, io credo che la colpa storica della sinistra sia stata quella di avere sottovalutato il vero protagonista della modernità, dall’ Umanesimo in avanti: l’ individuo.

Sì, lo so, la battaglia per i diritti civili è parte del patrimonio storico della sinistra occidentale, ma che ne è stato di quei diritti nei Paesi del socialismo reale, là dove si provava a far funzionare l’ ideologia ?

Il principio di solidarietà ha piegato ai suoi voleri il principio di uguaglianza facendolo diventare principio di livellamento, di appiattimento, e dunque, non è difficile immaginarlo, di abbassamento visto che l’ appiattimento solo verso il basso può agire. Da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni è uno slogan efficace, e del resto con le parole si riesce quasi sempre ad arrivare dove si vuole, ma che ne è di questo principio quando viene accolto nella mente di un “individuo” ?

Perché mai impegnarsi, dare il massimo, esprimere in pieno le proprie potenzialità se si è comunque destinati a non ricevere più di quanto spetterebbe comunque a chiunque altro ? E’ come partecipare ad una gara il cui regolamento prevede che le medaglie vengano equamente ripartite all’ arrivo tra tutti i partecipanti. Perché impegnarsi dunque, perché fare qualcosa in più di ciò che, con locuzione rivelatoria, si usa chiamare il “minimo sindacale” ?

Nella polis greca, là dove le nostre idee sono state concepite, l’ individuo quasi non esisteva, era la comunità ciò che contava, la polis appunto. E tuttavia la polis incoraggiava, e premiava, l’ eccellenza individuale, prometteva gloria imperitura, l’ immortalità addirittura, a chi si distinguesse per i servizi resi. Tutto il contrario dell’ appiattimento, l’ uguaglianza vera consiste ne far partire gli atleti in condizioni di parità, non certo nel livellarli all’ arrivo, e questo è stato forse il grande equivoco, quello che ha portato alle tetre società del socialismo reale, alla miseria generalizzata.

Raddrizzando l’ interpretazione dell’ uguaglianza, intendendola come “uguali opportunità” per tutti, ristabilendo la meritocrazia all’ arrivo, e dunque coniugando l’ uguaglianza con l’ individuo, si stimolano tutti a dare il meglio di sé, a realizzarsi, a fiorire liberamente. È l’ individuo il tassello mancante, quello che permette di accordare la libertà con l’ uguaglianza, di generare comunità orgogliose di se stesse e, aspetto non secondario, di generare la ricchezza necessaria affinché il terzo pilastro, la solidarietà, non resti puro esercizio di propaganda. So che è istintivo pensare che l’ apertura all’ individuo sia in realtà una resa al capitalismo di stampo liberista, cioè all’ ideologia dominante di oggi, ma è facile capire che non è la libertà individuale né la libera fioritura dell’ individuo lo scopo del liberismo capitalista, bensì il libero sfruttamento del medesimo senza regole né limiti.

La solidarietà, la vicinanza ai più deboli, è al centro del messaggio cristiano, eppure nella parabola dei talenti Gesù è molto chiaro nel mostrare che cosa si chiede a ciascuno: far fruttare i propri talenti al meglio delle proprie capacità.

Un “umanesimo di sinistra” dunque ? E’ quello che, ancora sulla suggestione di un testo di Todorov, cercavo di suggerire tempo fa. La lettura di una recente intervista rilasciata a Repubblica da Fausto Bertinotti,, che di certo ha tutti i titoli per impersonale la sinistra “dura e pura” del nostro Paese, sembra avere una curiosa assonanza, e per quello che mi riguarda, mi fa pensare che si tratti davvero della sola strada aperta al futuro.

… see it in a new sun rising
See it break on your horizon

Biblioterapia – Leggere le avvertenze

Se non stai attento e ti distrai un attimo, le mode ti sfrecciano accanto.

Ho scoperto, per via del fatto che Sellerio pubblica questo libro  in edizione italiana, l’ esistenza del fenomeno della “Book Therapy”, o Biblioterapia. Non che sia sorpreso, ne ho viste di più curiose, e del resto che le storie possano curare lo sosteneva già trent’ anni fa un pensatore ben più strutturato come James Hillman . E da qualche parte ho anche letto che era abitudine di Benedetto Croce quella di “prescrivere” ai suoi interlocutori i testi che riteneva per loro appropriati, segnandoli su fogli di notes a mo’ di ricette volanti. Insomma, l’ idea non è nuova.

Curioso è semmai constatare che adesso esiste addirittura la figura professionale del “biblioterapista”, uno specialista che sta fra il medico, il professore di letteratura e lo psicanalista, uno che, avendo ascoltato con attenzione tutti i sintomi del paziente, prescrive (su ricettario del S.S.N. ?) i testi da assumere secondo dosi precise fino a remissione dei sintomi. Ma badate bene che quando si parla di terapia, qui non si intende il famoso “mal di vivere”, l’ alienazione dell’ uomo contemporaneo, la perdita di senso della postmodernità e via filosofeggiando. No. Qui si parla di malanni ben più terra-terra come il mal di denti (consigliata Anna Karenina per via del Conte Vronski che ne soffriva), mal di testa (Hemingway, non so perché), obesità (Sostiene Pereira di Tabucchi), ferite e dolori fisici e morali di ogni specie.

Insomma, non tanto psicoterapia alternativa, quanto medicina vera e propria sino quasi al limite del pronto soccorso… Va bene, ogni moda ha i suoi eccessi, si sa, e qualche medicamento lascia un po’ perplessi, come il fatto che uno tormentato da un feroce mal di testa possa convincersi a prendere in mano un libro. Però, in assoluto, l’ idea che del libro-farmaco non mi è del tutto estranea, per quanto non mi abbia mai sfiorato l’ idea di ricorrere ad un vero e  proprio prontuario terapeutico, ecco.

Ho sempre praticato l’ automedicazione, semmai, come penso abbiano fatto molti dei viandanti, scegliendo libri di volta in volta in consonanza con l’ umore e lo stato d’ animo prevalente del periodo, e senza troppo badare ai sintomi fisici. Il punto non è questo.

Il punto è – semmai – che nel considerare il libro come un farmaco (e per conto mio, ripeto, ci può stare) occorre ricordarsi della valenza ambigua e vagamente infida del termine. Farmaco, da “farmakon”, è tanto un medicamento quanto un veleno, non solo perché, com’ è noto, molti farmaci sono effettivamente ricavati da erbe velenose o sostanze tossiche, questione di dosaggio, ma anche perché non c’è farmaco senza effetti collaterali. E siccome viviamo in una società iperprotettiva e più che garantista, nonché agguerrita sul piano legale, i foglietti illustrativi si fanno sempre più lunghi e circostanziati. Come a dire, vi avevamo avvertito…

Ora, se il libro viene davvero equiparato ad un farmaco (sono loro che lo dicono, non io) occorrerebbe porsi quanto meno il problema se sia il caso di allegarci un appropriato foglietto illustrativo (“Leggere attentamente le avvertenze. Può avere effetti collaterali“).

Io, fin dalla tenera età, mi sono auto-prescritto nonché autosomministrato dosi massicce di libri senza mai dico mai badare al foglietto illustrativo. E le conseguenze si vedono.

Forti dosi di Pirandello in età adolescenziale hanno annidato nel mio organismo un pessimismo cosmico circa la natura umana, ed uno scetticismo profondo sulla possibilità di trarre un qualche senso dall’ esistenza.

Sono poi entrato, ancora minorenne, nel tunnel della letteratura americana, complice qualche prof-pusher. Roba forte, da Steinbeck ad Hemingway (altro che mal di testa…) a Kerouac, ricavandone i sintomi di una permanente irrequietezza, uno stato di agitazione costante, una pulsione al movimento le cui conseguenze porto ancora adesso. Nemmeno l’ assunzione dell’ opera omnia di Nero Wolfe è mai riuscita a depurarmi l’ organismo, niente da fare. Perennemente “altrove” ed eternamente inquieto, migrante interiore prima ancora che nella realtà, semplicemente incapace di allineamento e riposo. Intossicato a vita.

E fortuna che ho incontrato Nietzsche grande abbastanza da leggerci dentro la disperazione dell’ impotenza dietro l’ arroganza della forza, e non parliamo poi di Céline e dei poeti maledetti. I tormenti di Dostoevski, l’ ansia di non riuscire a piegare se stessi ad una fede, la rivelazione impudica della natura umana così com’è, senza filtri nei miti greci, sono tutti farmaci potenti, da assumere sotto stretto controllo del terapeuta. Per non citare poi libri ancora più pericolosi…

Quando ho cominciato io stesso a scribacchiare, la faccenda mi è parsa ancora più chiara. “Tutta l’infelicità degli uomini ” dice Pascal “proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una stanza”. Eppure, per qualche motivo, quella stanza è proprio l’ unico posto in cui ho sempre fatto fatica a scrivere. In aereo, in treno, nella macchina parcheggiata, in hotel o al ristorante, nelle sale d’ attesa di mezzo mondo, ma a casa no.

Intossicazione da Chatwin, Hemingway, Pessoa, Dostoevski, quel che volete, inquietudine, irrequietezza, sintomi cronicizzatisi negli anni, avvelenamento farmaco-letterario irreversibile, ecco cosa mi ha colto. State attenti, dunque, prima di prendere in mano un libro, leggete attentamente il foglietto illustrativo e preoccupatevi degli effetti collaterali.

Io sono contento di non averlo mai fatto.

L’ osceno in scena

 

“Se la processione che fanno e il canto del fallo che intonano non fosse in onore di Dioniso, ciò che essi compiono sarebbe indecente; la medesima cosa sono Ade e Dioniso, per cui impazzano e si sfrenano.”

(Eraclito, frammento 15)

Leggo che una volta Carmelo Bene, parlando dell’ osceno di cui era spesso accusato, lo definì come “os (?) skené”, ciò che è “fuori scena”, cioè ciò che non va rappresentato, che non è conveniente alla esposizione in pubblico. Ma proprio il “non essere in scena”, per lui, equivaleva a smarrirsi, a perdere l’ identità ed il senso, e questo era proprio il suo intento artistico.

L’ etimologia citata da Carmelo Bene in quell’ occasione, per quanto goda tuttora di una certa popolarità, è fasulla, ed è probabile che lui ne fosse ben consapevole. Era un’ etimologia forse auspicata, desiderata, inventata. Nella realtà, l’ origine del termine “osceno” è tutt’ altro che chiara, c’è che la collega al fango dandogli il significato di “ immondo,”, non-pulito”, e chi invece lo collega a qualcosa di malaugurio.

Quel che è certo è che l’ osceno non ha nulla a che vedere con l’ assenza dalla scena teatrale, e questo chiunque abbia un po’ di dimestichezza col teatro antico non faticherà a riconoscerlo.

Difficile infatti immaginare un qualsiasi argomento “osceno” o scandaloso che non sia stato portato sulle scene del teatro classico, dall’ incesto al parricidio all’ infanticidio per vendetta al sadismo psicopatologico, nulla è stato risparmiato in quella galleria del male che è la tragedia attica. Nell’ Edipo Re, com’ è arcinoto, il protagonista uccide il padre e sposa la madre, generando figli con lei. Nell’ Agamennone, Eschilo mette in scena l’ omicidio del re ad opera della regina e del suo amante, un Macbeth arcaico, nella successiva tragedia “Coefore” è il figlio Oreste ad uccidere la madre a pugnalate per vendicare il padre. In una sorta di contraltare, il dramma satiresco non si faceva mancare nulla in fatto di linguaggio scurrile e perversioni sessuali, inclusa la presenza in scena di attori travestiti, appunto, da satiri con tanto di fallo artificiale.  Persino nella più morigerata commedia non mancano i temi sessuali, ad esempio nella Lisistrata di Aristofane, a seguito dello sciopero delle mogli, gli Spartani si ritrovano ad andare in giro con evidenti gonfiori di origine naturale sotto la veste…

Difficile del resto immaginare qualcosa di diverso, in una forma di espressione artistica nata in onore di Dioniso, probabilmente il dio più trasgressivo che l’ umanità abbia mai conosciuto, tossico e bevitore, erotomane e bisex, inaffidabile e psichicamente disturbato. Ne abbiamo parlato a lungo, qui.

E dunque, se è osceno tutto ciò che è contrario alla morale, ai costumi, la scena teatrale non è affatto luogo di esclusione ma nasce addirittura come luogo di elezione, luogo designato alla rappresentazione dell’ immoralità e della oscenità, alla messa in scena del male più oscuro come esperienza iniziatica e, come si suol dire, “catartica”.

Questo carattere originario, il teatro non l’ ha mai perduto, dal carro di Tespi alla Fura del Baus,, e la poetica di Carmelo Bene vi si innestava come elemento di continuità più che di rottura.

Ma di questo, uno come lui certamente non poteva rallegrarsi …

Natura morta con paesaggio


L’ ambiente è ciò che gira intorno.

La parola “ambiente” ha la radice “ambi” che vuol dire “di qua e di là”, come in “ambivalente”, “ambiguo”, “ambidestro”. L’ ambiente dunque sta “di qua e di là”, “tutto intorno a te” come una vecchia pubblicità che avrei preferito non avere così tanto  intorno a me, nonostante Megan Gale.

Che cosa c’è, tutto intorno a noi ?

C’è l’ aria, anzitutto, quella che respiriamo, poi c’è quello che sentiamo, suoni o rumori a seconda dei casi, ci sono gli odori, buoni e cattivi, e poi c’è il panorama, cioè “pan-orao”, vedo tutto. Ciò che si respira, si sente, si odora, si percepisce, e ciò che si vede intorno, quello è l’ ambiente.

Ora, ciò che si osserva quando ci si trova in una posizione favorevole, con una vista aperta non impedita da ostacoli, è il paesaggio, e paesaggio è un’ altra parola che ha parecchie cose da dire. “Paesaggio” infatti viene dal latino “pagus ager”, dove “ager” è ovviamente la campagna, mentre “pagus” deriva a sua volta dal termine greco “pagos”, che indicava il luogo elevato su cui si insedia la comunità. L’ Areopago di Atene, sede del primo tribunale della storia, è letteralmente, la “collina di Ares”. Pagus è per estensione il paese, che sta in alto, e paesaggio è la campagna, il territorio attorno al paese.

Ma c’ è un altro termine deriva da “pagus”, ed è “pagano”. Pagano è letteralmente l’ abitante del villaggio, il “non-cittadino”. E pagano è colui che si ostina, di fronte al Cristianesimo che si afferma, a credere ancora negli dei, fino all’ ultimo. Era un termine dispregiativo, per i primi cristiani. Villici. Buzzurri. Pagani.

Va bene, d’ accordo, la campagna è arretrata per antonomasia, lì tutto arriva in ritardo, si capisce, le novità vengono sempre dalla metropoli. Però io ci trovo una forma di bellezza, in questa condizione. Mi spiego.

Gli dei dell’ antichità classica erano “tutto intorno a noi”, vivevano nella natura quando non addirittura, come Pan, erano la natura.

Dice Hillman:

Le potenze appaiono in luoghi specifici: sotto un albero, presso una sorgente, un pozzo, su una montagna, in un pianoro, all’ ingresso della tana di un serpente, o in linea con il sole, la luna e le stelle. Gli uomini segnano questi luoghi speciali con altari, fossati, pietre disposte in cerchio”.

(L’ anima dei luoghi, Rizzoli 2004, p. 22)

 Il problema del pagano era che poteva pure avere una divinità preferita, a cui rivolgersi per avere favori e protezione, però non poteva trascurare le altre, perché le divinità dell’ Olimpo erano assai invidiose le une delle altre, si compiacevano dei sacrifici dei mortali e si vendicavano con ferocia da psicopatici su chi li trascurava o recava loro offesa. E dunque il povero pagano campagnolo, devoto (mettiamo) di Ares, doveva comunque un minimo blandire anche Zeus, Era, Apollo, Atena, Artemide, Afrodite, Dioniso, Pan e chi più ne ha più ne metta per evitare grossi guai. E doveva altresì rispettare tutti i luoghi in cui queste divinità dimoravano o avrebbero potuto dimorare (non si sa mai).

Cioè doveva rispettare tutti i luoghi belli.

Se gli dei sono tutto intorno a noi, nei monti, nelle foreste, nelle sorgenti, ebbene è necessario rispettare tutto ciò che d bello esiste intorno a noi. È una questione non solo estetica, ma morale. Rispettare l’ ambiente diventa una questione religiosa, anzi diventa LA questione religiosa per eccellenza. Un misto di devozione e timore reverenziale.

Per noi, ovviamente non è così, non è più così da molto tempo, per noi solo l’ uomo è dotato di anima, non gli animali e meno che meno i luoghi.

La natura è oggetto di dominio, “res nullius”, cosa di nessuno a disposizione di chi la prende, l’ aria, l’ acqua sono libere, gratuite ed inesauribili. Le risorse naturali sono a disposizione senza alcun riguardo, sono mezzi di produzione. Come dice Heidegger, per l’ uomo moderno “la foresta è legname, la montagna è cava di pietra, il vento è vento in poppa”. Il mondo è “utilizzabile”.

Per certi versi la cosa si può capire. Mai nella storia abbiamo avuto il dubbio che il mondo potesse esaurirsi. Finire sì, nella collera divina, travolto dai cavalieri dell’ Apocalisse, finanche nella guerra termonucleare globale, ma esaurirsi no. Madre Natura che non allatta più, come una tata con le mammelle avvizzite ? Impensabile.

Ed invece, è proprio l’ impensabile che oggi tocca pensare, che il mondo possa finire per consunsione, per logoramento, per esaurimento. Per sfinimento.

Lo “sterminio dei campi” di cui parlava Andrea Zanzotto fa parte di questa usura. Ogni volta che un ettaro di campi viene edificato, quei campi sono perduti per sempre e non torneranno mai più ad essere campi.

Pochi numeri bastano a dare l’ immagine di questo sterminio, questi e molti altri sono reperibili nel libro di Salvatore Settis “Paesaggio, Costituzione, Cemento” (Einaudi). Dagli anni ’50 ad oggi la superficie urbanizzata in Italia è cresciuta del 500%, ogni giorno vengono cementificati 161 ettari di terreno, in massima parte terreni fertili di pianura, per costruire 33 vani per ciascun nuovo nato, quasi che dovessimo arrivare a mezzo miliardo di abitanti. Il 17% del territorio è degradato, solo tra il 1990 ed il 2005 si sono persi complessivamente 3,7 milioni di ettari, pari alla superficie totale di Lazio ed Abruzzo messi insieme. Vero è che di regioni ne abbiamo 20, ma forse è il caso di darsi una regolata.

Se il rapporto classico con il paesaggio era al tempo stesso estetico e morale, lo sterminio del paesaggio non può che avere conseguenza sia estetiche che morali. Le due cose procedono insieme.

Non si può attraversare una qualsiasi periferia urbana tra palazzoni fatiscenti e squallidi capannoni industriali senza sentire un’ angoscia opprimente, un desiderio di allontanarsi, andare via, quasi un istinto di conservazione che ci spinge a fuggire via da ciò che ci appare malsano, mortifero, corrotto, putrido. La sensazione che rimanendo lì finiremo con l’ ammalarci. L’ esatto opposto della risposta istintiva del “pagano” che osservando un luogo speciale per qualità e bellezza, ne attribuisce l’ origine al fatto di essere, quel luogo, dimora di un dio o di una ninfa.

“Si diventa pagani (…) perché ci si accorge che tutto è vivo”

J. Hillman, ibid., p104.

Nel momento in cui il mondo si consuma, ci si può salvare solo recuperando, in forma meno ingenua e “magica” proprio questa forma di rispetto.

Il mondo non può più essere “res nullius”, deve tornare ad essere proprietà, se non degli dei, almeno degli uomini, tutti gli uomini, deve diventare “res omnium” ovvero, in termini moderni, bene comune.

Regolato, disciplinato, e soprattutto tutelato come bene comune, prima che scompaia per tutti, e per sempre.

Qualcosa d’ antico, rimesso a nuovo

Segue da qui (…)

Una libertà che non degeneri in individualismo è una “libertà responsabile”, rivendica spazi di autonomia personale senza danno alla comunità.

Una libertà responsabile sostiene il laicismo, pretende il diritto di esercitare un pensiero critico nei confronti di ogni autorità e di ciascuna dottrina, predilige un approccio scettico ed interrogativo nei confronti del mondo. La libertà responsabile induce a chiedere conto a qualsiasi autorità della delega su cui essa stessa si basa, pretende che chi esercita un qualsiasi potere ne risponda.

La libertà responsabile forma cittadini, non servi né tifosi, cittadini consapevoli del fatto che il patto sociale richiede il rispetto da parte di entrambe le parti contraenti, ed il rispetto dei patti che consente ai cittadini di esercitare i diritti civili comincia con l’ assolvere ai doveri, rispettando leggi e norme, pagando le tasse e rispettando le norme, divieti di sosta inclusi. Non esistono scorciatoie “responsabili”. Solo questa condizione rende sostanziale ed esercitabile la pretesa che chiunque sia delegato ad esercitare un potere di quel potere pubblicamente risponda.

La libertà responsabile favorisce l’ emancipazione e la maturità, riconosce il diritto di scelta, l’ autodeterminazione, la libertà di impiegare la propria vita come meglio si ritiene, senza doverne rendere conto ad alcuno nella misura in cui non si crei danno alla comunità. La libertà responsabile comprende, come naturale conseguenza, l’ inviolabilità personale, il diritto di accettare o rifiutare cure, la libertà anche di mettere fine alla propria esistenza nel momento in cui non la si ritenga più degna. Nessuno ha titolo di autorità in questo giudizio, che compete solo all’ individuo.

La libertà responsabile produce tolleranza e tutela il pluralismo, ha l’ obiettivo di consentire a ciascuno di formarsi un’ opinione critica informata, desidera una società il più possibile aperta, pratica un riformismo continuo come forma di “manutenzione ordinaria” della comunità.

La libertà responsabile vigila sull’ esercizio di ogni forma di potere, come si è detto, e dunque esige la partecipazione attiva. Non si firmano cambiali in bianco, ed è necessario che chi esercita un ruolo pubblico senta costantemente sul collo il fiato di un’ opinione pubblica informata che è, come diceva Joseph Pulitzer, “la nostra vera Corte Suprema”. È la partecipazione il cane da guardia che rende trasparente la democrazia, smaschera ingiustizie, corruzioni, inefficienza, errori. È la partecipazione il vero “potere dei senza potere”, ciò che costringe a “vivere nella verità” secondo le formule di Vaclav Havel. La libertà responsabile non può convivere con la censura.

“La somma di libertà individuale che un popolo può conquistare e conservare dipende dal grado della sua maturità politica” scrive Arthur Koestler in “Buio a mezzogiorno”.

È la finalità umana, dunque, a rendere responsabile la libertà, ad impedirne la deriva individualistica. La finalità umana tempera la libertà con la solidarietà.

La finalità umana, cioè trattare kantianamente gli esseri umani come fini e non come mezzi, trova compimento nella cura per la comunità, nella difesa dei deboli, nella gratuità. Se gli esseri umani sono fini e non mezzi, allora non tutto può essere ridotto alla logica, pur importante, dell’ economia. Esistono interessi da preservare, la tutela della vita e della salute, la sanità di base e l’ istruzione, indispensabile perché l’ “opinione pubblica informata” non si riveli una presa in giro, e l’ arena democratica non degeneri in una sfida fra demagoghi populisti.

La finalità umana porta a considerare che la cultura, la bellezza e l’ arte sono aspetti sostanziali e non accessori dell’ essere umano, necessari alla sua salute fisica e psichica, e che la loro tutela, che certamente può essere gestita in modo economicamente assennato, non deve assoggettare la sua stessa sussistenza al ritorno economico, ma deve prescinderne. L’ economia serve a trovare le risorse per vivere bene, non è fine a se stessa. Pur in tempi di crisi, ci sono priorità che vanno tenute ferme.

L’ ambiente, il paesaggio, la biodiversità non sono “res nullius”, ma “res omnium”, beni comuni in cui il termine collettivo abbraccia le generazioni future, la finalità umana impone la sostenibilità, il dovere di lasciare ai nostri figli un pianeta vivibile almeno quanto quello che abbiamo ricevuto in eredità.

La finalità umana è universale, terzo principio collegato di questa forma di umanesmo posmoderno che ci stiamo figurando. Non è possibile confinarsi in una dimensione locale, le considerazioni che abbiamo fatto forzano ad una visione internazionale.

L’ universalità porta a ritenere che l’ integrazione è un valore, che le persone sono responsabili di ciò che fanno e non di ciò che sono, e che qualunque persona ha diritto ad un’ opportunità equa.

I diritti umani sono universali, ed è necessario che non siano restino enunciati sulla carta ma diventino effettivi, obiettivo da cui siamo ben lontani. I 191 paesi aderenti all’ ONU si sono impegnati nel settembre 2000 a realizzare entro il 2015 otto obiettivi “minimi”, per rendere il mondo un posto migliore, e rendere concreti i Diritti Universali dell’ Uomo.

Questi obiettivi, definiti “Millennium Development Goals”, sono i seguenti:

Quasi dodici dei quindici anni previsti per la realizzazione del programma sono trascorsi, ed è quasi imbarazzante provare a fare una sintesi dello stato di avanzamento di questi obiettivi.

Altre priorità hanno tenuto banco, in particolare gli obiettivi di globalizzazione economica e finanziaria imposti dalle politiche liberiste.

Non è possibile una correzione di rotta, che riporti al centro dell’ attenzione la persona umana, se non si ritrova uno spirito internazionalistico che porti ad una globalizzazione non solo dei capitali ma anche dei diritti dei lavoratori.  Bisogna cominciare a parlare di contratti di lavoro sopranazionali, di diritti e principi irrinunciabili da garantire in tutti i Paesi e da far recepire dalle singole normative nazionali, in modo da armonizzare le discipline del lavoro e mettere fine alle guerre fra poveri. Proporre una certificazione internazionale che attesti il rispetto delle norme minime sul lavoro da parte di qualunque azienda che voglia concorrere sul mercato internazionale.

C’è spazio, tanto spazio, per una politica che voglia riaffermare la propria identità culturale ridando voce a chi da molto tempo non riesce più a farsi ascoltare, ed a chi non c’ è mai riuscito.

A rimettere a nuovo le cose vecchie ancora buone c’è sempre da guadagnare, per tutti.

Qualcosa di nuovo, anzi d’ antico ?

(…) è da molti anni che la voce degli ultimi non trova la maniera di farsi ascoltare.

I sindacati faticano a drenare gli umori e le esigenze dei non rappresentati, dei precari e dei ragazzi senza lavoro.

La fabbrica, da tempo, non è più il teatro che possa mettere in scena in modo rappresentativo e solenne l’ incontro-scontro tra capitale e lavoro. 

La sinistra, che è il vettore storico (bisecolare) della protesta sociale, è semiparalizzata dal carico di responsabilità anche istituzionali) che la crisi finanziaria le scarica sulle spalle.

Siamo, in un certo senso, all’ anno zero del conflitto sociale “new age”.
Largo spazio a chi inventerà qualcosa di nuovo: forme organizzative, parole, azione politica.

Michele Serra, Repubblica, 3/1/12


È una condizione alquanto disperata, quella che emerge da questa righe di Michele Serra, tratte dalla sua rubrica quotidiana su “Repubblica”. Come se non si sapesse più dove sbattere la testa, come se si fosse smarrito il senso e la direzione. Un ciclo storico si chiude, un ruolo che ha dominato il pensiero e la società pare non avere più nulla da dire, o quantomeno pare non riuscire a dire più nulla.
Datemi un punto di appoggio, una nuova pietra d’ angolo, datemi un terreno buono e solido, sgombro dalle macerie dell’ ideologia, un terreno su cui si possa nuovamente pensare di costruire qualcosa.
Non che abbia tutti i torti, naturalmente. Oggi i valori sono talmente confusi e mischiati, talmente frantumati e centrifugati da rendere oggettivamente difficile raccapezzarsi, la sinistra da anni vene percepita come conservatrice, immobilista, quasi oscurantista di fronte ad una destra che si presenta come moderna ed autenticamente riformatrice. Dal lato opposto, una destra populista, con elementi separatisti e tratti istituzionalmente destabilizzante ha sollecitato la sinistra ad una insolita difesa della legalità, dell’ ordine costituito, della Patria persino.
Il paradosso dei radicali arenati fra battaglie libertarie e posizioni ambiguamente liberiste è paradigma di una oggettiva perdita di riferimenti.
L’ ideologia è la degenerazione sclerotica di ideali mummificati. Ma morte le ideologie sono necessariamente morti anche gli ideali ?

Quali sono stati i momenti migliori nella storia della civiltà occidentale, a quali circostanze viene spontaneo riferirsi quando si vuole convincere se stessi che l’ uomo sulla Terra non è solo una patologia infestante ? Quali periodi storici hanno riscattato la nostra specie ? E’ spontaneo riferirsi ai momenti storici nei quali i valori riconosciuti, seppure non sempre o non del tutto messi in pratica, erano quelli classici dell’ umanesimo.
La centralità dell’ uomo, certo. Ma non solo quello. La centralità dell’ uomo non basta; mettere l’ accento esclusivamente su quello porte certamente ad esaltare la libertà, ma può facilmente condurre all’ individualismo arrogante, alla volontà di dominio, all’ autoritarismo, come pure sul versante opposto alla disgregazione sociale.
Vorrei prendere spunto da alcune considerazioni di Tzvetan Todorov, filosofo e a suo modo sociologo certamente meno popolare di Bauman, ma non meno acuto, a mio avviso.
Todorov identifica il cuore dell’ umanesimo nella coesistenza equilbrata di tre valori, tre elementi potenzialmente conflittuali:

  • autonomia
  • finalità umana
  • universalità

L’ autonomia, naturalmente, trova la sua radice nella autocoscienza dell’ essere umano, animale che riflette su se stesso, che si ri-conosce. Ma l’ uomo, appunto, può riconoscersi, può costruire la propria identità solo di fronte agli altri, confrontandosi con individui simili ma non identici a se. Non avremmo il linguaggio se non avessimo nessuno con cui comunicare; d’ altra parte nel momento stesso in cui qualcuno che identifichiamo come “speculare” compare all’ orizzonte, la nozione di libertà “assoluta” tramonta.
È proprio il riconoscere l’ uomo come fine, ogni uomo singolarmente preso, che permette secondo Todorov all’ umanesimo di sfuggire alla deriva dell’ individualismo così come a quella dello scientismo inteso come pretesa di costruire a tavolino una società “ottimizzata”. Nessuna finalità collettiva può mai giustificare il sacrificio di singoli individui né, a maggior ragione, di interi gruppi.
I principi umanistici teorizzati da Todorov ricompaiono, naturalmente, sia pure sotto una veste un po’ diversa, come valori fondativi dell’ Illuminismo per diventare successivamente parole d’ ordine della Rivoluzione Francese e quindi di tutta la tradizione di sinistra.
Libertà, fraternità, uguaglianza segnano, secondo la ricostruzione di Todorov, la riemersione in veste moderna di quei principi di autonomia, finalità ed universalità che l’ umanesimo aveva sviluppato.
La storia moderna, e quella del Novecento in particolare, ha reso ancora più evidente la necessità assoluta che i tre principi vengano declinati insieme e collegati l’uno all’ altro, per non ripetere gli eccessi sia dell’ individualismo egoistico sia dell’ anti-individualismo comunitario.
Libertà, solidarietà, uguaglianza sono ancora una buona base di valori ? Vale la pena tentare, ancora una volta, di ripartire da qui ?

(continua qui)

Legge naturale


Bisogna stare attenti, sempre molto attenti, quando viene voglia di invocare la “legge naturale”.

Bisogna soprattutto accertarsi che esista.

Non c’ è niente di più culturale della cosiddetta “legge naturale”, tanto che nel corso della storia è stato considerato “naturale” praticamente tutto ed il contrario di tutto.

È stato considerato naturale l’ infanticidio selettivo, per esempio, e non in remote tribù selvagge ma a Sparta ed a Roma così come nella Cina moderna, per non parlare poi di Isacco il quale, udito il comando divino, non battè ciglio riguardo alla necessità di eseguire l’ ordine e sacrificare il figlio.

E’ stata considerata naturale la predisposizione di certi uomini ad essere schiavi.

È stata considerata “naturale” la poligamia e, più raramente, la poliandria.

E’ stato considerato “naturale” il cannibalismo, per esempio, addirittura ritualizzato come atto estremo d’ amore verso i propri cari venuti a mancare oppure come mezzo per impadronirsi del coraggio e della forza del nemico sconfitto ed abbattuto, ed in fondo un cannibalismo simbolico-rituale è alla base del mistero eucaristico.

È stato considerato naturale e giusto decapitare, squartare, torturare, arrostire vivi i dissidenti, talvolta persino per la maggior gloria di Dio.

Per quanto riguarda l’ omosessualità, si fa persino fatica ad immaginare che un tempo, nell’ antichità classica, fosse considerato “naturale” che un ragazzo impubere avesse rapporti sessuali con uomini molto più anziani, ed “innaturale” chi eventualmente rifiutasse tali pratiche. Né (ovviamente) pratiche sessuali di questo tipo gettavano ombra alcuna sulla virilità di un Achille (amante di Patroclo), di un Socrate (amante di Alcibiade e molti altri) o dello stesso imperatore Adriano che all’ amante dedicò intere città e mausolei. E che dire poi del fatto che la più alta espressione della poesia anglosassone, i Sonetti di Shakespeare, hanno un tono platealmente ed inequivocabilmente omosessuale ?

Come si racconta nella Butterfly, il Giappone dell’ Ottocento considerava naturale che il matrimonio valesse come un contratto d’ affitto con clausola di recesso salvo conferma mensile, lo stesso concetto  di matrimonio a tempo ( e per di più dietro compenso) non è estraneo all’ Islam sciita (Nikah mut’ ah) per quanto l’ argomento sia oggi piuttosto controverso.

Ma allora, dov’è la normalità e dove la “legge di natura” ?

Certo, si può fare riferimento alla riproduzione come misura della normalità.

Se questo è, bisognerebbe però essere coerenti fini in fondo e riconoscere che, date le premesse, nessuno stile di vita è altrettanto contro natura quanto quello che predica la castità, l’ astinenza, il celibato.

Se ipotizziamo per un attimo che questo stile di vita venga abbracciato con entusiasmo sincrono dalla generalità degli esseri umani, tutti gli uomini e tutte le donne del pianeta, ne deduciamo immediatamente la conclusione dell’ implacabile estinzione dell’ intera specie umana nel giro di pochi decenni.

E quale modello di vita può mai essere  quello che si basa sulla fiducia di non essere mai generalizzato, pena l’ irreparabile catastrofe ?

“Fate come me, ma pochi per volta, mi raccomando” può mai essere la base per una superiorità morale in fatto di “legge naturale” o supposta tale ?

SE la riproduzione è il vero parametro di misura della “normalità”, ALLORA, al contrario, diventa ben difficile obiettare alla poligamia, alla promiscuità, alle pratiche di gruppo persino, in grado di aumentare significativamente le possibilità di eventi, per l’ appunto, riproduttivi.

Come la mettiamo ?

Più che tirare in ballo madre natura, allora, conviene parlare di sistemi di valori.

Ma qui il discorso si fa complesso, e lo rimando ad un altro post.