Il bosco s’è desto

A dispetto del tempo, oggi ostinatamente nuvolo e monocromo, il bosco sembra ormai deciso a cambiare abbigliamento. Moltitudini di primule e di viole non temono di sfidare, quasi provocare, con sapienti e colorati sberleffi il grigio malmostoso di questo cielo che incombe, quaresimale, penitenziale, punitivo.

Il giallo sfacciato è orgogliosa rinascita, non c’è dubbio, l’azzurro violaceo guarda invece più lontano, oltremare, che uno si domanda che ne saprà una viola, di cos’è l’oltremare. Non importa, sono qui entrambi, ed insieme provano a negare i colori caldi delle foglie secche tra cui si fanno spazio. Sgomitano tra loro pure i bianchi ed orgogliosi bucaneve, quasi sorpresi di non aver trovato niente da bucare.

Si preparano, lo senti che si preparano, per l’ arrivo ormai prossimo del mese più crudele, quello senza misericordia nel far nascere lillà dalla terra morta, nel mischiare ricordo e desiderio, nel ridar vita a disseccate radici con la pioggia di primavera, come dice il poeta. Quasi a ricordarci che com’ è la stirpe delle foglie, così è anche quella degli uomini, che le foglie, alcune il vento ne versa a terra, altre il bosco in rigoglio ne genera, quando giunge la stagione della primavera: così una stirpe di uomini nasce, un’altra s’estingue, come diceva molto tempo prima un altro poeta. Ma a me non importa, stare al caldo d’ inverno non è il mio forte, e dunque ricominci presto a scorrere, l’ acqua di primavera, e smuova pure ricordi e desideri.

Bravi del resto i poeti a vantare similitudini analogie e metafore, bravi davvero, ma chi di loro si sente in grado di descrivere questo odore, l’ odore particolare del bosco in una umida mattina di inizio primavera ?

L’ elleboro si guarda intorno un po’ perplesso, è stata la primadonna nei mesi di pieno inverno, pressoché senza rivali, e adesso sembra percepire che è tempo di lasciare la scena, quasi che il bosco non abbia più bisogno di lui. È dura da digerire, si capisce, e lui, l’elleboro, c’è rimasto male ed ha la faccia un poco smarrita dell’attore sul viale del tramonto. Chissà se gli hanno spiegato che qui nel bosco il tempo è circolare, mica quella fesseria a forma di freccia che si sono inventati gli umani, per forza che poi gli viene l’ansia. Chissà se immagina che la sua stagione tornerà, ancora e ancora e ancora. L’agrifoglio invece no, lui non ci pensa, sembra essersi rassegnato senza problemi, tanto  è sempreverde e che volete che gli freghi, ad un sempreverde, del tempo circolare e delle stagioni ?

Più in alto ancora c’è la neve, ed attutisce il mondo intero, colori, odori e rumori si attenuano fin quasi a scomparire, ma si capisce che è solo un trattenere il respiro prima che inizi il nuovo spettacolo.

Sì, nel bosco certe volte si ha la sensazione che la natura in fondo non possa che fregarsene di noi sciagurati umani, e se ne vada  più o meno per la sua strada, chi c’è, c’è.

E a volte mi trovo a sperare che sia davvero così.

Il mondo è lì

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Il mondo è da qualche parte, lì sotto. Che ci resti, almeno per un po’.

Sono tornato qui, stamattina, col cuore un po’ pesante, senza aspettative, senza neppure sapere bene se avrei avuto convinzione a sufficienza. Ma salire toglie peso, sempre, non ne aggiunge mai, e dovrei saperlo bene dopo tanti anni.sol

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Assisto al miracolo quotidiano della luce, la montagna è così gentile da trattenere il sole abbastanza a lungo da risparmiarmi  un’ alzataccia.

Il sol ridea LEVANDO dietro al Resegone (“Signora Carducci, lo vede ? Suo figlio è intelligente, ma non si applica, mi fa di quegli errori…”).

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E poetando poetando, se ciascuno ha il suo ermo colle, quassù incontro il mio…

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Per non parlare di certi vecchi amici, che è sempre bello rivedere..

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Io sto qui, e il mondo lì sotto, da qualche parte, e per oggi va bene così.

Un po’ di bianco trascendente

Passo Manina

Il sudore, ci vuole. È la fatica, la misura del valore di tutte le cose, la manifestazione oggettiva del nostro tenerci. Ci vuole il sacrificio, che è poi ciò che serve a “rendere sacro” qualcosa. Attraverso il sacrificio si arriva a ciò che è sacro, e che va trattato con rispetto, il sacro ci mette un attimo a diventare esecrabile, l’ etimologia non tradisce mai. Fatica, cura, dedizione, passione, sacrificio, parole che si compongono assieme.

Questo penso, mentre avanzo piano, un passo alla volta, il piè fermo sempre il più basso.

La valle è in ombra, il freddo intenso, ma il maglione di pile e la giacca a vento fanno un buon lavoro, e la fatica ci mette il resto. Il sudore mi cola dalla fronte, insomma, mentre avanzo a fatica su per la salita. Il bosco di conifere è fitto, persino la luce fatica a filtrare, in questo sottobosco umido e ricoperto di aghi non cresce praticamente nulla, neppure gli alberi stessi riescono a rinnovarsi. Il taglio del bosco è utile al bosco stesso, questa è una cosa che un cittadino, sia pure cresciuto a pane ed ecologia, difficilmente riesce a comprendere.

Freddo, ombra e fatica, dunque. E silenzio, naturalmente, perché le valli in ombra sono le meno frequentate, e qui non ci viene proprio nessuno. Ma la montagna quasi mai delude, ed ecco che dopo un ultimo e faticoso strappo il bosco si apre, o fu aperto dai taglialegna molto tempo fa e mi trovo in una radura dolcemente ondulata.

Al centro della radura, una piccola baita di legno, chiusa ed evidentemente disabitata. Sopra ed intorno, la neve ha coperto tutto assecondando con morbidezza le curve del terreno, nascondendo le asperità rocciose, quasi come se fosse stata la montagna stessa a volersi addolcire, in un incongruo moto di empatia.

Sulla neve, nessuna traccia, solo neve primitiva, ignara, persino rozza nella sua ingenua innocenza. Né uomini né animali hanno violato questa bianchezza su cui solo adesso, proprio adesso, il sole arriva a battere.

Le gocce di sudore salato raggiungono le palpebre, entrano negli occhi, costringono a strizzarli, bruciano, il sudore genera lacrime, sembra quasi una metafora, e mentre mi sforzo per mantenere lo sguardo limpido, i raggi del sole sembrano superare le esitazioni iniziali, e trionfalmente inondano la radura innevata, scovano ad uno ad uno i milioni di cristalli di ghiaccio e ad uno ad uno li fanno scintillare come diamanti, o come milioni di microscopiche stelle adagiate sulla neve. Uno sfarfallio, un caleidoscopio di luci, un accendersi e spegnersi fulmineo di minuscoli abbaglianti puntini luminosi, rendono la radura uno scenario magico ed irreale.

La bellezza toglie il fiato, sospende il respiro, e proprio questo è il senso della parola “estetica” questa bellezza pura ed assoluta, bellezza che è il punto di contatto fra l’ umano e il divino. Per incontrare il divino, bisogna venire dove gli dei dimorano, e bisogna arrivarci attraverso un percorso, parlare di pellegrinaggio può sembrare blasfemo, ma insomma serve il sudore e la purificazione, la rigenerazione attravesrso la traspirazione, che allontana le tossine, ma anche rabbie e risentimenti, miserie e gelosie. Tutto resta a fondo valle, la salita è come la muta di un serpente, e forse proprio per questo qui, proprio qui, davanti ai miei occhi, la trascendenza si manifesta.

Gli Elfi del bosco gelato

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Non c’è niente di più vero del bosco gelato nel cuore dell’ inverno. Il freddo intenso impedisce alle cose di mostrarsi diverse da come sono, non avanzano energie da sprecare in dissimulazioni e travestimenti, tutto è esattamente come è, a partire dagli alberi senza il velo del fogliame. La neve ghiacciata si spezza sotto la pressione degli scarponi con un crepitio da patatine, mentre la vita del bosco intorno sembra trattenuta, anch’ essa, nel minimo sforzo vitale. Eppure, qualcosa si avverte, una cincia sfreccia tra i rami e tracce, molte tracce dimostrano che il bosco è abitato.

E’ come se ci fossero due popolazioni sovrapposte e parallele, qui, destinate a non incontrarsi facilmente. Adesso ci siamo noi, goffi bipedi alla luce del giorno, infagottati in materiali più o meno tecnici e protettivi, traspiranti ed idrorepellenti, quasi fossimo palombari, oppure  astronauti alieni. Ci siamo noi, e non ci sono loro.

Loro, i veri e legittimi abitatori del bosco, quelli che non hanno scarponi né giacche a vento, quelli che non si cambiano mai, quelli senza zaino e senza pranzo al sacco, quelli che se non trovano da mangiare muoiono.

Cervi e caprioli, le tracce sono diverse per chi le sa distinguere, e fra i caprioli c’è anche qualche piccolo, perché la vita non si ferma certo per un inverno, che non è neppure dei peggiori, poi. Alberi scortecciati mostrano che la fame non dorme e qualche volta morde, ed i  morsi della fame sono diventati morsi veri, al legno dov’è più tenero, che almeno dia la sensazione della pancia piena. Mors tua vita mea, questa e non altro è la legge di natura, e chiunque pensi il contrario non sa, o non vuol vedere.

Altre tracce  incrociano le prime, creature più piccole e cattive, si intuisce, e non meno affamate. Una volpe rossa, probabilmente, e qualche martora, o faina. Sarebbe un vero regalo per loro se uno di quei piccoli caprioli precipitasse da una cengia, un cenone da leccarsi i baffi fino all’ alba. Ma non sempre è festa, e bisogna accontentarsi di quello che c’è, qualche uccello incauto, un rospo, una salamandra, un serpentello dalla vista corta.

Più in alto, dove il bosco finisce e la montagna si fa più cattiva, lassù ci sono i camosci e le pernici bianche, più in basso ed a portata di fameliche zanne ci sono i galli cedroni ed i forcelli, ma loro lo sanno, e se ne stanno bene acquattati. Dovranno per forza esporsi più avanti, nella stagione degli amori, ma non è adesso, è all’ inizio dell’ estate quando il bosco è un po’ più generoso e la fame dei predatori, si spera, un po’ meno acuta. Mors tua vita mea è una legge che imparano tuttiin fretta, quassù.

Creature che corrono, volano, strisciano e si arrampicano sono come gli Elfi delle fiabe, escono e popolano il bosco soprattutto di notte, e quando non c’è nessuno che possa vederli, e svaniscono nel nulla non appena i goffi bipedi infagottati avanzano con quello che a loro deve sembrare un frastuono da banda di paese. Per questo tanti bipedi non credono alla loro esistenza. Ma hanno torto.

Si dovrebbe essere più umili e rispettosi, ecco tutto, arrivare quassù in punta di piedi, chiedere il permesso magari, e poi accomodarsi, diventare abitanti del bosco, anzi diventare bosco fino a scomparire, assumere il colore l’ odore il respiro del bosco, farsi dimenticare, rendersi invisibili come le creature fatate. Solo allora gli elfi, distratti o rassicurati, usciranno nuovamente dai loro nascondigli per mostrarsi ai bipedi non più estranei.

Per i quali sarà difficile tornare indietro, dopo.

Usato sicuro

Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.

D. Thomas

Usarsi.

Non vivere al risparmio.

Logorarsi. Ammaccarsi. Farsi male.

La gara non è a chi porta in fondo l’ anima senza un graffio.

C’ è una vita qui, una sola. Non è in garanzia e non c’ è rimborso.

Usarla.

Arrivare al traguardo logori, a brandelli, col cuore che perde colpi, doloranti, affannati, questo va bene. Arrivarci avendo dato fondo a tutto ciò che si ha, ed anche di più, questo è il meglio.

Essersi consumati e goduti, trovarsi con l’ anima ricca e piena e gonfia di felicità e dolore e gioie e botte, commozione e ferite. Senza fiato, col cuore in gola, realizzato e ricco.

Qui. Ora. Nel mondo.

Usare il proprio talento, quale che sia, che qualcosa ci sarà pure, fino a sfinirlo.

Costringerlo a crescere fin dove ce la fa, e poi ancora un po’ di più.

Se e quando qualcuno chiederà conto, poter rispondere senza esitazioni e rimpianti: “Di più, proprio non ne avevo”.

“Hey, I know it’s late we can make it if we run”

Perturbazione tropicale

Il mondo richiede attenzioni superiori alle forze dell’ individuo.

Molto va perduto nel lento avanzare della solitudine.

Il silenzio è destino.

I fantasmi galleggiano a mezz’ aria, in certi momenti immobili e minacciosi, in altri trascinati per la stanza dal vento forte dei pensieri, rimpianti, rimorsi, minacce, paure, risentimenti che mi fanno rigirare insonne fra lenzuola straniere in questa inquieta notte. Voci e visi, frasi e sguardi, occhi malevoli mi avvolgono e rivolgono fra brividi ed inspiegabili vampate, mi fanno alzare e tornare a letto cento volte, mi fanno maltrattare inutilmente l’ incolpevole cuscino.

Su questo mi soffermo, e sono lampi e scintille, o stelle cadenti nel cielo buio di questa notte tormentata. Col lenzuolo sulla testa vedo distintamente, il tempo cambia e la perturbazione perturba, come Scrooge nel racconto di Dickens volteggio sulla vita passata, plano sugli incontri, rivedo gli snodi, giudico le mie stesse colpe soppeso il mio dare col mio avere.

Che fare ? Volere è potere, il simile curerà il suo simile, la stanchezza fisica acquieterà quella nervosa, il farmaco è veleno sì, ma la dose omeopatica a volte non basta. Un’ ora ci vuole, è più di quanto reggano i fantasmi.

E allora calzoncini e maglietta, scarpette da corsa. Il frequenzimetro nemmeno serve, a forza di correre il cuore ha imparato da se ad andare a tempo, a regolare il suo stesso ritmo, come una linea di basso degli U2.

Domani non succederà nulla

I platani lungo il viale sono cresciuti, le radici ingrossandosi hanno sollevato l’ asfalto del marciapiede, spaccandolo in più punti. In quelle spaccature sono cresciuti fili d’ erba, che scavalco, erba, spaccatura e radici, nel mio jogging solitario alle prime luci di questa mattina fredda e limpida d’ inverno che non è una mattina qualunque.

Corro, mentre il primo sole sorge nel cielo di un rosa surreale, affiorando da un orizzonte di campi coltivati e cascine solitarie.

La corsa scalda, trasudo vapore come una locomotiva sfiatata, ed è quasi divertente osservare la brina formarsi sui guanti di lana che proteggono i pugni istintivamente chiusi.

Gli alberi vogliono riprendersi il marciapiede, e forse un giorno lo faranno davvero, vorrebbero tornare a fare le cose a modo loro, alberi, erba, sterpi, spazzare via quest’ ordine imposto e sovrapposto a quello naturale, cioè della natura.

Mi figuro nella mente città perdute nella foresta amazzonica, Atlantide inghiottita dagli abissi, siti archeologici dove a stento si riconosce l’ opera umana risommersa dalla vita selvatica, quella che non tollera ordine e geometrie, quella che non fa progetti. La vita che si limita a vivere, anno dopo anno, stagione dopo stagione, equinozi e solstizi ritmicamente alternati, ugualmente spaziati. Un giro alla volta, proprio come questa corsa regolare tra campi e cascine che le gambe ormai percorrono senza di me e che presto tornerà al punto di partenza, non sia mai che qualcuno debba venire a recuperarmi per strada.

Un altro giro, più o meno come tanti già fatti, un altro giro come di stagioni o come il capodanno da qui a qualche ora.

E questo pensiero però un po’ strania, perché dall’ anno nuovo non ci si aspetta che sia la ripetizione di nulla, ma che sia invece tutto nuovo, e col trascorrere degli anni si sente sempre più il peso di questa condizione esigente, quando tutto o quasi tutto pare essere stato già visto e fatto, ciò che arriva già arrivato, ogni evento già vissuto persino, forse, con più entusiasmo e passione o maestria.

Domani non succederà nulla.

Non è detto, naturalmente. Non è mai detto.

Che ce la faccia, a sorprendermi, il 2012.

Dodici Apostoli ed alcune anime


Sono in missione per conto di Dio ?
Beh, non esageriamo. Però oggi è una giornata speciale, questo sì.

Escursione solitaria, ed è così che deve essere. Una giornata di silenzio e di ascolto, sembra una contraddizione ma non lo è. Nel chiasso senti solo chiasso, per ascoltare serve il silenzio.
Per ascoltare cosa, si vedrà strada facendo.
 
Dunque sveglia all’ alba, e sono il primo a scendere per la colazione, poi via subito in macchina, anche questo sembra un paradosso ma non lo è. Mi piacerebbe assai partire dall’ albergo già con gli scarponi ai piedi e lo zaino in spalla, e si potrebbe pure fare, il sentiero da Madonna di Campiglio a Sant’ Antonio di Mavignola è bello e facile, ma aggiungerebbe una quindicina di chilometri all’ escursione che ho in mente oggi e, soprattutto, quattrocento metri di dislivello in salita di cui stasera non sentirò il bisogno. Il programma di oggi è già ottimo ed abbondante.
 
Prendo l’ auto dunque, scendo verso S. Antonio ed imbocco la Val d’ Agola percorrendo una strada sterrata fino a quando termina in un piazzale. Un rapido calcolo per individuare dove arriverà l’ ombra nel pomeriggio. Raramente ci azzecco, ma tentare non costa nulla. Parcheggio.
 
Segue la consueta rituale vestizione, calzettoni, scarponi, fazzoletto al collo, zaino ben assestato, il rituale è tanto più accurato quanto più l’ escursione è lunga ed impegnativa, anche una minima piegolina nella calza può diventare una tortura dopo quattro ore di cammino. Meglio perdere qualche minuto in più per sistemarsi bene, dunque, che fermarsi dolorante a metà strada.

Che poi l’ idea di tempo perduto, o guadagnato, è la solita maledetta idea da maledetto cittadino che qui, almeno qui, dovrei cercare di sradicare. È davvero tempo perso questo, alle otto del mattino nel bosco che si sveglia, tra fruscii d’ acqua che scorre e mille versi di uccelli che si intravedo sfrecciare bassi fra i rami ? E’ tempo perso, assaporare l’ aria fresca ed il cielo azzurro e questi colori così intensi che sembra un viaggio nell’ iperrerealtà, pare quasi che abbiamo fatto un mondo tutto nuovo stamattina, che sono io il primo a vedere ?
O non è forse invece tempo vivo, vivo come di rado capita di goderne ?
 
Respiro nel respiro del bosco, e siccome respiro, alito, vento, nient’ altro che questo è il vero ed originale significato della parola “anima”, ecco che l’ anima qui sento, dentro e fuori di me, nel bosco e nel silenzio. L’ anima è ciò che ascolto, né più né meno.
 
La prima parte della camminata è una lunga marcia di avvicinamento, questo lo sapevo già dalla guida e per esperienza diretta, il percorso che risale fino al lago l’ ho già fatto un’ altra volta. Quello che non sapevo è che la strada la stanno rifacendo, e dunque è chiusa anche ai camminatori e mi tocca seguire le deviazioni, allungare il percorso, salire, scendere per risalire e ridiscendere ancora, ed insomma, ci metto parecchio più del previsto ad arrivare fino al lago, e fatico anche più di quanto pensassi. Pazienza, non serve neppure dirlo, che pazienza ne ho e se non l’ avessi, la montagna me l’ avrebbe ormai insegnata. 

Ma ogni difficoltà è anche un’ opportunità, e la deviazione ha almeno questo di buono, che mi porta più addentro nel bosco, dove con la strada di prima non sarei arrivato, e dove, a quanto pare, l’ anima del bosco nutre qualche giovane emanazione.

Naturalmente, un capriolo è solo un animale, ed un animale l’ anima non ce l’ ha, non ce la può avere, questo dicono i sacri testi, ma allora perché si chiama animale ? E dunque, con buona pace dei teologi, saluto l’ anima animale e proseguo il cammino.

Un gruppo di ciclisti mi sfila, sono un occasionale biker io stesso, guardo le bici, saluto, loro scompaiono rapidamente, fino al lago il sentiero è largo e facile, si può fare anche in bici, anzi si fa prima, però dopo io proseguirò e loro no, così va coi mezzi interposti che più sono e più si interpongono.
Non farei cambio, oggi.
 
Ci metto dunque più di un’ ora ad arrivare al lago, e lì mi concedo la prima pausa, seduto accanto a due vecchietti arrivati lì chissà come. Pescano e litigano fra loro. Cosa abbiano pescato non lo so, ammesso che qualcosa abbiano preso, io ho visto solo pesciolini piccolissimi…

Ma la giornata è così bella da bastare a se stessa, e questo probabilmente hanno pensato i due, e lo penso anch’ io.

Il lago è uno spettacolo da sembrare finto, così perfetto, rotondo e circondato dal bosco, più lontano i monti innevati vengono riflessi capovolti sull’ acqua limpidissima. Il sentiero costeggia sulla destra, poi senza preavviso si stacca comincia a fare sul serio salendo con decisione, così che in poco tempo mi trovo ad osservare il lago ad ogni tornante come da un aereo.
 
Ce n’ est que le début, viene da dire.
 
Superato il bosco, il sentiero finalmente si apre su un vasto altopiano e per la prima volta vedo, all’ orizzonte, la mia destinazione, talmente lontana ed in alto da apparire quasi irraggiungibile, un miraggio, un mito, il castello del Graal ed io un misero Parsifal alla ricerca di qualcosa che forse non esiste.

Ma il rifugio quasi irraggiungibile esiste, e allora mi aggrappo a quel “quasi” e mi dico che basta fare un passo dopo l’ altro, un passo alla volta ed ogni passo fatto è un passo in meno da fare.
Quasi quasi mangio una mela.
 
Riparto dopo la pausa di buona lena, ma le prove iniziatiche non finiscono qui, né me lo sarei atteso, al pari di ogni buon cavaliere errante.
E così, finito di attraversare l’ altopiano, mi trovo ai piedi di un ghiaione da attraversare a mezza costa, e qui il cammino si fa davvero faticoso, la ghiaia si muove sotto gli scarponi, frana e fa perdere l’ equilibrio.
Stringo i denti e proseguo, un passo dopo l’ altro, per un tempo che mi sembra infinito.
Il sole è alto nel cielo ormai, fa molto caldo e devo razionare l’ acqua.
 
Finito in qualche modo il ghiaione, tocca alla roccia, il sentiero si fa ripido e secco, non c’è più erba, non c’è più nulla se non roccia grigia e chiazze di neve, non di rado devo aiutarmi con le mani, il cammino si va davvero lento, c’è da soffrire e da portare pazienza, altra pazienza.

L’ ultimo tratto lo chiamano “Scala Santa”, addirittura, forse vogliono dire che quando uno ci arriva vede la Madonna, ma oggi la fortuna non mi aiuta, la scala, che è una vera scala con i gradini di metallo, è sepolta sotto la neve e non è praticabile, hanno segnato un percorso alternativo con le bandierine di metallo, ma è ancora più duro, bisogna tirarsi su con le gambe e con le mani insieme e dopo quasi quattro ore di energie non ce n’ è più così tante.

Però l’ essere umano è strano e quando si pensa di non farcela più ce la si fa ancora, il limite è sempre più in là di dove te lo aspetti, e questo è forse l’ insegnamento più bello dei miei anni di montanaro dilettante, sei un po’ più forte di quanto pensi, sempre. E dunque avanti un passo alla volta, ormai non manca tanto, il rifugio lo vedi, è lì, ti guarda con le sue finestre bianche ed azzurre, non posso certo pensare di rinunciare adesso e difatti non ci penso, ancora qualche passo e spiana, solo che camminare in piano mi riesce quasi strano dopo tutto questo arrampicare, ma ormai è fatta, è lì, sono arrivato al castello del Graal, non ci posso credere.

I Dodici Apostoli, speroni di roccia nuda e scabra mi guardano muti.

Quasi barcollando entro. Ci sono solo io.
Non so com’è, ma me l’ aspettavo, ci contavo quasi. È così che deve essere.

Ordino una birra, torno fuori, mi schianto sulla panchina, al sole.
Non ci sono per nessuno.

Resto così, la birra che mi rinfresca, gli occhi socchiusi, il calore del sole sulla pelle, sì lo so che stasera mi troverò tutto rosso in volto, ma non me ne può importare di meno, sono tutto sensazione tattile adesso, e odorato e udito, la vista no perché gli occhi li ho chiusi, diamo un po’ di soddisfazione anche agli altri sensi.

Sarò io che mi lascio andare, sarà la stanchezza, ma mi pare di sentire persino un battito lontano, come se fosse il battito del polso, però sta diventando più forte, più vicino, non ci sono dubbi, e pur se non ne ho voglia mi tocca aprire gli occhi per guardare quello che sta succedendo, il rumore è proprio forte adesso.

Un elicottero.Che ci fa qui un elicottero ?
Non c’è motivo, nessuno si è fatto male, anzi non c’è proprio nessuno che possa farsi male visto che ci sono solo io, del resto quelli del rifugio le provviste le fanno arrivare con la teleferica, e allora che ci fa qui questo rumoroso aggeggio ?

Volteggia avanti e indietro, si ferma per aria, infine si posa sulla piazzola apposita e, se Dio vuole, spegne il motore.

Lo sportello si apre, scende un tipo, calzoncini kaki e sahariana, occhiali a specchio e berretto in tinta.
Sta parlando al telefono, anzi urla per superare il rumore del vento e delle pale dell’ elicottero.
“Sì, dovresti vedere, è bellissimo, qui !. No, non ci vuole molto ad arrivare, ci abbiamo messo neanche venti minuti, dovresti vedere che spettacolo !”. Ordina a gesti una birra, che tracanna di un fiato.
“Adesso facciamo il giro dall’ altra parte” urla, “poi torniamo giù. Ma è una meraviglia, credimi !”.
 
Gli sto augurando mentalmente ogni genere di sofisticato supplizio cinese, faccio anzi uno sforzo per riportare alla mente le più efferate torture di cui sia a conoscenza, ma non faccio in tempo a completare l’ elenco, lui intanto ha finito la birra, ha pagato e sta già ritornando verso l’ elicottero. Riparte, se ne va ed è la prima cosa che apprezzo di lui da quando l’ ho visto.
 
Il silenzio ritorna sovrano, ed è quello che mi serve per fare ciò che sono venuto a fare, qui.
Mi affaccio dal terrazzo del rifugio, il sole allo zenit, davanti a me la vallata imponente, le Dolomiti di Brenta, un paesaggio in cui sperdersi per ritrovarsi. Il vento fischia forte, adesso.
Il vento.
Ànemos.
Anima.
I Dodici Apostoli mi guardano muti.
 
Sono qui per rendere omaggio ad un uomo, una persona che ho conosciuto ed ammirato. Un uomo vero, a cui, con maschile e silenzioso pudore, ho voluto bene.

Era un alpinista ed un vero appassionato di montagna, e non ho dubbi che avrebbe preferito essere commemorato qui che in una chiesa di periferia. 
Non ho dubbi perché è quello che piacerebbe anche a me. 

Cenere alla cenere, anima al vento.
 

Ghost rider

A reazione avvenuta, i cieli si condensarono in un essere, fra i possibili. 
La creatura parve respirare, e poi abbassarsi pulsando fino ad avvolgere l’ orizzonte degli eventi in un grigiore accecante.
L’ uomo tentò di urlare, ma nessun suono uscì dalla nebbia densa.
Come un falco al termine della notte, il re della strada si rimise in cammino nella direzione del chiarore. Cinquantasei stelle basse sull' orizzonte.

La strada è tutto quello che abbiamo.


 

A reazione avvenuta, i cieli si condensarono in un essere, fra i possibili.

La creatura parve respirare, e poi abbassarsi pulsando fino ad avvolgere l’ orizzonte degli eventi in un grigiore accecante.

L’ uomo tentò di urlare, ma nessun suono uscì dalla nebbia densa.

Come un falco al termine della notte, il re della strada si rimise in cammino nella direzione del chiarore.

Cinquantasei stelle basse sull' orizzonte.

La strada è tutto quello che abbiamo.