Odisseo, ancora lui..

 

 

È sempre affascinante osservare come l’ Occidente continui a girare e rigirare attorno a certe storie, che per la maggior parte sono state originate nella Grecia antica. È come se, in quel tempo remoto, da quel piccolo popolo fosse stata allestita la scena, una volta per tutte, e per quanta storia sia trascorsa sotto i ponti, tuttora su quella scena ci troviamo tutti quanti, ancora adesso, a recitare. Quelle storie continuiamo a rigirarle, ci accompagnano e seguono, ci ammoniscono e confortano, ci mostrano la strada, dopo millenni. Da lì è cominciato tutto, anzi ancora prima, da un pugno di storie fantastiche tramandate per chissà quante generazioni prima che qualcuno le mettesse per iscritto.

Prendiamo Odisseo – Ulisse. La sua storia era già vecchia di secoli quando Socrate scandalizzava gli ateniesi benpensanti con i suoi discorsi in piazza. Eppure la storia di Odisseo – Ulisse non è mai stata archiviata, ha accompagnato l’ Occidente per tutta la sua storia, da Omero attraverso Dante, fino a Kavafis, Joyce, Walcott, tremila anni ed ancora non va in soffitta.

È chiaro, il personaggio è cambiato nei secoli e continua a cambiare, l’ eroe omerico voleva soprattutto tornarsene a casa sua, è stato Dante a farne il campione di una curiosità addirittura arrogante, che può condurre alla rovina, gli Illuministi invece lo vedevano eroe della volontà di conoscenza, il Novecento lo vide invece inquieto, in preda al male di vivere, insomma ogni età ha avuto un Odisseo diverso. Ma del resto, già in apertura del poema omerico l’ eroe viene definito “polytropos”, multiforme, dai molti aspetti, un camaleonte, e dunque dov’è la sorpresa ?

L’ ennesima reincarnazione del mitico eroe la trovo in un affascinante e raffinato libro di Daniel Mendelsohn, non a caso intitolato “Un’ Odissea”, come a dire un’ altra, ancora una fra tante.

Daniel Mendelsohn, già autore del libro-documento sull’Olocausto “ Gli Scomparsi”, è un docente universitario di lettere classiche. L’ anziano padre, Jay Mendelsohn, è invece un ottantenne matematico-ingegnere in pensione, uomo severo e rigido nei propri principi, con una passione repressa e mai spenta per la cultura classica.

Il professor Mendelsohn viene dunque incaricato di tenere un seminario universitario sull’ Odissea, ed il padre, un po’ a sorpresa, gli chiede di poter assistere.

Sin dal primo incontro, però, appare chiaro che l’ anziano Jay Mendelsohn non si limiterà affatto ad “assistere”, intende partecipare eccome, e dire la sua, coinvolgendo gli studenti, provocando discussioni con le sue idee, polemizzando. Un incubo. Al figlio non resta che fare buon viso a cattivo gioco.

Perché mai dovremmo considerare Odisseo un eroe ? È questo il punto centrale delle questioni che Mendelsohn padre solleva. In fondo Odisseo è un pessimo comandante, perde tutte le navi e tutti i suoi uomini, in parte perché non riesce a farsi ascoltare da loro. Per di più tradisce la moglie, è bugiardo e, parliamoci chiaro, le avventure che racconta sono così incredibili da giustificare il sospetto che se le stia inventando di sana pianta, o quantomeno che ci ricami attorno parecchio. E poi, scusate, che razza di eroe è uno che piange continuamente, che ad ogni passo ha accanto una dea pronta a spiegargli dove andare e cosa fare ? Quale merito ha lui nelle sue imprese se viene sempre aiutato ?

È chiaro che per il vecchio Mendelsohn, Odisseo è l’ antitesi del self-made man, è tutto ciò che un vero uomo non dovrebbe mai essere. L’ opposto di un eroe.

Le domande impertinenti del vecchio padre vivacizzano il seminario, tuttavia, tanto che al termine del semestre padre e figlio decidono di partire insieme per una crociera “sulle tracce di Odisseo”.

L’ Autore alterna con eleganza ed abilità il resoconto degli incontri al college, scanditi dai libri del poema, al racconto delle vicende personali dell’anziano genitore. Ne racconta il passato, il progressivo declino fisico, fino alla graduale (e tardiva) scoperta delle sue debolezze e fragilità, così bene nascoste a tutti, per una vita intera, sotto l’ immagine di uomo tutto d’ un pezzo.

Ma allora, sembra chiedersi l’ Autore, neppure Jay Mendelsohn era un vero eroe ?

Un inciso.

Viene naturale associare l’ eroismo ad una serie di caratteristiche positive quali forza, determinazione, costanza, tenacia, fermezza. Quella che viene chiamata resilienza, cioè la capacità di reggere ai colpi del destino, e rialzarsi ogni volta. E poi la bontà, naturalmente, la generosità e la nobiltà d’ animo. L’eroe è senza macchia e senza paura, ce lo insegnano da piccoli, non è vero ?

Il problema è che gli eroi, così come i santi, non sono affatto così. O almeno, non sono SOLO così.

Jung ha mostrato che tutto ciò che è illuminato non può non avere un’ ombra, solo nella tenebra totale non ci sono ombre.  Quanto più intensa la luce, tanto più scura l’ ombra proiettata, e la luce che investe gli eroi è intensissima. Possiamo rifiutarci di vederlo, naturalmente, ma tutto ciò che rimuoviamo ritorna sempre alla carica, e spesso in forma di malattia.

I Greci questo lo sapevano benissimo. I loro eroi sono uomini, “larger than life”, d’ accordo, ma umani, superano i comuni mortali nel bene così come nel male. Tipi poco raccomandabili, spesso. Forti e coraggiosi, curiosi ed avventurosi, ma anche, al bisogno, perfidi, traditori, cattivi, o persino deboli, come Agamennone ucciso dalla moglie infedele al suo ritorno, o come lo stesso Odisseo, che piange a dirotto davanti al fantasma della madre. Gli eroi classici sono rotondi e non piatti, si stagliano contro la luce e proiettano ombre distinte, ci mettono di fronte a ciò che siamo e talvolta preferiremmo ignorare di essere. E forse è proprio questo il motivo per cui sono modelli universali ed eterni, di cui non riusciamo a fare a meno.

 

Ed ecco infine il cerchio chiudersi, la narrazione farsi circolare, nel poema così come nella famiglia Mendelshon, attraverso il riconoscimento tra padri e figli. Da Telemaco che incontra Odisseo per la prima volta e dunque “ha poco da riconoscere”, come nota uno studente, allo stesso Odisseo che rinuncia ad ingannare il vecchio padre Laerte, perché un figlio, per quanto appartenga a suo padre, non lo conosce mai del tutto, perché il padre lo precede; ha sempre vissuto molto più del figlio, perciò il figlio non può mai mettersi in pari, arrivare a sapere tutto di lui”.

Fino a Daniel Mendelsohn stesso, un po’ Telemaco, un po’ Odisseo, che per la prima volta, attraverso una sorta di viaggio sentimentale, arriva a scoprire davvero l’anziano genitore.

Per finire con il lettore, che si trova a condividere pensieri profondi e riflessioni non banali su cosa significhino realmente i rapporti in una famiglia.

Un mitico energumeno

 

A parziale discolpa di Eracle possiamo dire che ebbe una nascita a dir poco travagliata. Anzi, che dico la nascita, finanche il concepimento.

La mamma di Eracle si chiamava Alcmena, era figlia di Euridice (sì, proprio la sposa cadavere di Orfeo), e moglie di un brav’ uomo ed ottimo soldato, di nome Anfitrione.

Ora, il fatto è che Alcmena doveva essere davvero una gran bella donna, ma proprio bella bella, talmente bella da destare le speciali attenzioni di Zeus. Lo so, obietterete che non ci voleva molto a destare le attenzioni di Zeus, che a certe cose era attentissimo e non se ne faceva scappare mezza, ma apposta io ho parlato di attenzioni “speciali”. Probabilmente stufo di travestirsi da cigno, toro, pioggia dorata o chissà che altro per rimorchiare, padre Zeus decise che per una volta voleva fare l’ amore proprio come un uomo. E, per evitare spiacevoli discussioni e fastidiose lungaggini prima di arrivare al sodo, attese pazientemente che Anfitrione partisse per una guerra (a quei tempi non si doveva mai aspettare molto), e semplicemente ne prese le sembianze.

Ora, immagino che Alcmena si possa essere sorpresa nel vedersi presentare dinanzi il marito lindo e profumato di ritorno da una guerra-lampo. Come che sia, decise che non era il caso di discutere, con Anfitrione-Zeus che la sospingeva verso il talamo intanto che cercava di togliersi l’ armatura.

Che Alcmena dovesse essere assai bella l’ abbiamo già detto, ma a questo punto della storia occorre darle atto anche di una certa prestanza fisica. Zeus infatti, quella volta aveva deciso di fare le cose in grande, e sapendo di poter disporre di energie sovrumane, aveva chiamato il fido Ermes (fido per lui, assai meno per gli altri) e gli aveva ordinato di fermare il Tempo, nientemeno. Sì, fermare il tempo, arrestare il moto delle sfere celesti, dire al Sole di non muoversi dalle scuderie fino a nuovo ordine, avvisare Eos l’ alba di nascondere il vestito rosa bello, e alla Luna di tenere la posizione di tre quarti, così romantica da vedere attraverso la finestra della camera di Alcmena.

Insomma, innamorato come un ragazzino e con lo stesso ardore, Zeus impegnò la ragazza in una cavalcata di tre giorni e tre notti, settantadue ore e scusate se è poco.

Ma non era finita lì.

Infatti, terminata l’ interminabile seduta, e saziato l’ insaziabile amante, Alcmena ha giusto il tempo di rassettarsi un po’ e darsi una pettinata, che sente bussare alla porta, apre e si trova davanti il marito reduce dalla guerra e desideroso quanto mai di dolci baci e languide carezze.

Ora, io non posso credere che Alcmena non abbia avuto almeno un attimo di smarrimento. Ancora qui, e come se niente fosse stato ? Di sicuro deve aver pensato che qualcosa in questa storia non quadrava. Reagì comunque da donna di classe, sorrise al marito che rientrava e si rimise di buona lena a fare quello che aveva appena smesso di fare. E qui viene il dubbio che Alcmena, oltre che bella e atletica, potesse pure essere insaziabile quasi quanto padre Zeus. Ma sorvoliamo…

Il risultato comunque fu che quella notte (ma sarebbe più appropriato dire quella settimana, o quasi), Alcmena rimase doppiamente incinta, mettendo al mondo nove mesi dopo due gemelli diversi, figli di padri diversi, una prestazione da Guinness. Uno dei pargoli si chiamava Ificle ed era figlio di Anfitrione, l’ altro, il figlio di Zeus, era per l’ appunto Eracle.

Naturalmente, una scappatella di tre giorni e tre notti è difficile che passi inosservata, e fu così che il piccolo Eracle fu subito preso di mira dalla solita Era, legittima e (comprensibilmente) incazzatissima consorte di Zeus. La quale Era tanto per cominciare ficcò due enormi serpenti nella culla del piccolo Eracle. Qualcuno per la verità insinua che la trovata fosse di Anfitrione, che aveva non si sa come scoperto l’ intrigo e non l’ aveva presa bene. Altri ancora invece raccontano che Anfitrione, venuto a conoscenza di tutto, si fosse detto onorato che il padre degli dei avesse voluto prendere le sue sembianze per omaggiare la sua sposa, e renderlo addirittura patrigno di un semidio. A me onestamente pare che un simile aplomb superi finanche le capacità di un Lord inglese dell’ Ottocento, altro che eroe della Grecia arcaica. Comunque, riferisco.

Come che sia, Eracle impugnò i due serpenti con le sue manine paffutelle, li strangolò e li scaraventò fuori dalla culla, chiarendo così da subito il tipo di rapporto che intendeva intrattenere con il mondo.

C’è da dire che Anfitrione cercò in ogni caso di fare buon viso a cattivo gioco, e si mise anche d’ impegno per tirare su quel ragazzone dandogli almeno una sgrossata. Lo mandò persino a scuola di musica da Lino, il fratello di Orfeo addirittura, perché imparasse a suonare, ma le manone di Eracle non si prestavano a trarre melodie dalle corde della cetra, e di fronte ai rimproveri del maestro Eracle finì col reagire a modo suo. Gli spaccò la cetra in testa, uccidendolo.

Anfitrione non si diede per vinto, ed insistette nel disperato tentativo di dare al giovane una qualche forma di educazione; decise però anche di aumentare la distanza di sicurezza tra Eracle e le suppellettili della casa reale mandandolo in campagna a fare il mandriano. Qui, all’ età di 18 anni, Eracle ebbe modo di manifestare i suoi talenti andando a caccia di un leone che depredava le mandrie. Dopo 50 giorni Eracle lo scovò e lo uccise strangolandolo a mani nude, dopo di che lo scuoiò ed utilizzò l’ intera pelle per coprirsi, aggiustandosi la testa del leone sul capo come se fosse un elmo.

I cinquanta giorni non furono però interamente inoperosi. Eracle era infatti ospite del re Tespi, il quale aveva giusto cinquanta figlie dalle quali in nostro eroe trasse conforto, una per notte. E che scovasse il leone giusto alla scadenza dell’ultima fanciulla, io la trovo una coincidenza un po’ sospetta.

Del resto, che il giovane Eracle fosse di natura alquanto smodata, ce lo conferma anche Euripide nell’ Alcesti:

“Ospiti arrivati alla reggia di Admeto ne ho conosciuti e serviti a tavola tanti, ma sinora non me n’era capitato nessuno peggiore di questo. Aveva ben visto la tristezza del mio padrone, ma ha avuto lo stesso la faccia tosta di entrare, di oltrepassare le soglie del palazzo. E poi, pur conoscendo la situazione, non si è accontentato dei cibi che gli venivano imbanditi, no, quello zotico se qualcosa mancava ce la chiedeva con insistenza. Agguantata con le mani una coppa di edera, tracanna vino puro, così com’è prodotto dalla nera terra, ne tracanna finché il calore fiammeggiante del vino non gli si diffonde per tutte le vene. E poi si ficca in testa una corona di mirto, ululando canzoni stonate.”

Che Eracle avesse modi sbrigativi col prossimo, era dunque cosa risaputa. Dovete sapere che, per motivi che non sto a rivangare, Tebe era tenuta a versare annualmente un tributo di cento vacche ad una città di nome Ergino. Bene, Eracle accoglie i messi venuti a ritirare il tributo, li aggredisce a freddo, taglia loro nasi ed orecchie, gli lega le mani al collo e li rimanda indietro col consiglio di non farlo ulteriormente arrabbiare. Mi spiego ?

Le dodici fatiche sono troppo note e troppo lunghe da raccontare qui. Citiamo solo un dettaglio.

Eracle si sta dirigendo verso l’ isola dove regna Gerione, al quale deve sottrarre la mandria di vacche (in fondo, mandriano era, Ercole, no ?). Ad un certo punto si rende conto che il Sole è troppo caldo, fastidiosamente caldo, e dopo averlo guardato male, prende arco e freccia e mira, minacciando di trafiggerlo se non la smette. Stranamente, in quella occasione il Sole, cioè Apollo, discreto arciere anche lui, la prende bene, ci fa una risata e regala ad Eracle una coppa d’ oro. Inutile aggiungere che l’ abigeato riuscì alla perfezione, nonostante la resistenza del mandriano e del suo cane, che vengono abbattuti a colpi di clava…

Era un tipo così, Eracle, ma non era il solo.

Infatti, il profilo psicologico (si fa per dire) di questo eroe, riporta alla memoria immediatamente un altro mitico forzuto dell’ antichità, il famoso Sansone.

Una bella gara, fra i due. Ma di Sansone parliamo un’ altra volta.

Disumano, anzi no

disumano‹di·ṣu·mà·no›agg.

Privo di ogni senso di umanità, spietato, bestiale:
ferocia, violenza d.
è d. trattare qcn. a quel modo Che non ha o non conserva nulla di umano:
dolore d.
urli d.

( dizionario italiano di WordReference)

Non si dovrebbe mai usare il termine “disumano”, ecco tutto. Mai. Proibirlo proprio, bisognerebbe, che  quando lo sento mi arrabbio.

Ogni volta che qualcuno fa ricorso a questo termine, puoi tenere per certo che sta parlando di comportamenti che sono esclusivamente umani, a proposito dei quali dovremmo essere citati per diffamazione dalle bestie.

Si adoperano termini come “disumano” e “bestiale” quasi sempre a proposito del male, cioè del prodotto della libertà, cioè della cosa più umana che esista. Il male gratuito è solo umano perché solo umana è la scelta di esercitarlo oppure no. Ed il male è tanto più umano quanto più è estremo, perché proprio nella mancanza di ragionevolezza, di misura, di motivazione, di giustificazione, proprio in questo manifesta la sua origine arbitraria, cioè radicata nel libero arbitrio. Al pari della bontà senza compromessi e della generosità senza tornaconto, ovviamente.

L’ uomo e’ tra i pochissimi animali che uccidono i propri simili, ma è assolutamente l’ unico capace di farlo su larga scala, o senza ragione. Poi, gli etologi spiegherebbero che la specie umana ha poche inibizioni alla violenza intraspecifica, un uomo a mani nude fatica molto ad uccidere un suo simile, a differenza di un leone o di un rapace, e dunque l’ umanità non ha elaborato tabù “genetici”, ma solo culturali al riguardo. Va bene, sarà. Però…

“Il punto scabroso è che uccidere il proprio fratello non appartiene al mondo animale, ma al mondo umano. (…) Il crimine non è infatti la regressione dell’ uomo all’ animale – come una cattiva cultura moralistica vorrebbe farci credere – ma essa esprime una tendenza propriamente umana.”  (M. Recalcati, Repubblica 5/5/13).

Propriamente umana, che ci piaccia o no, serial killers in testa.

E certo è che l’ infanzia non è al riparo dal male estremo, non lo è mai stata. Tutt’ altro.

Basta ritornare al mito, la narrazione del mondo prima del governo della ragione, per rendersi conto di quanto spesso il male sia stato esercitato sui bambini per colpire gli adulti. Basta pensare a Medea che uccide i propri figli per punire Giasone, ma ancora di più viene alla mente il ciclo miceneo.

Tantalo uccide, smembra e serve a banchetto agli dei il proprio figlio Pelope solo per vedere se gli dei se ne accorgono (se ne accorgono). I figli di Pelope stesso, Atreo e Tieste si combattono senza esclusione di colpi, il primo sottrae il regno al fratello, il secondo gli seduce la moglie. Allora Atreo uccide i figli di Tieste e glieli serve in tavola, culmine del banchetto l’ ingresso del vassoio con le teste dei bambini.

Il Sole inorridito indietreggia, raccontano i mitografi. Il Sole, non gli uomini. Tieste fugge, commette incesto con la propria figlia e genera con lei Egisto, che ucciderà Atreo ed il figlio di lui Agamennone dopo avergli sedotto la sposa, e così via…

Non si facevano mancare niente, nei miti.

Altri tempi ?

L’ immagine qui sopra è tratta dal bellissimo film d’ animazione “Valzer per Bashir”, che racconta il massacro di Sabra e Chatila, anno 1982. “In un giardino, i corpi di due donne giacevano su delle macerie dalle quali spuntava la testa di un bambino. Accanto ad esse giaceva il corpo senza testa di un bambino. Oltre l’angolo, in un’altra strada, due ragazze, forse di 10 o 12 anni, giacevano sul dorso, con la testa forata e le gambe lanciate lontano”, scrisse l’ inviato del Washington Post entrato a Shatila due giorni dopo.

Un rapporto delle Nazioni Unite denuncia che in Siria, oggi, anno 2013, i ribelli usano soldati bambini, l’ esercito regolare li cattura, li sevizia e li mette sui carri armati a fare da scudi umani.

Che ne penserebbe Ivan Karamazov , che affermava: «Io credo che se il diavolo non esiste e se, quindi, è stato l’uomo ad inventarlo, questi l’ha creato a sua immagine e somiglianza» ?

Umano, TROPPO umano, il male radicale.

Storie di un lontano sapere

 

“Prima di noi vennero le nuvole.

C’era un cuore di fango prima del respiro.

C’era il mito prima dell’inizio del mito,

Venerabile e articolato e perfetto”

Wallace Stevens

I miti contengono un sapere, una conoscenza, su questo sono tutti d’ accordo. È sulla natura di questo sapere che sono state avanzate le ipotesi più varie, e talvolta fantasiose. Molti hanno sostenuto (ed alcuni ancora sostengono…) che il mito sia il contenitore di una scienza segreta, di un sapere esoterico, dottrine misteriche che un tempo potevano essere condivise solo dagli iniziati. può darsi, o almeno è possibile che i miti fossero per certa parte suscettibili di doppia lettura, o qualcosa del genere. Persino la Divina Commedia lo è (“il velame dei versi oscuri“). Io non vedo in realtà ragioni convincenti a favore di queste teorie, ma in ogni caso queste dottrine per iniziati sono rimaste sepolte con gli stessi, ed abbiamo ben poche possibilità di comprendere oggi quei significati, religiosi, cosmologici, misterici che fossero. Non ne sappiamo abbastanza per comprendere come quegli iniziati vedessero il mondo. L’ interesse semmai sta da tutt’ altra parte.

Il Mito, com’ è noto, affonda le radici in epoche remote, prima che nascesse la scienza, prima che nascesse la filosofia, e non solo. Il Mito c’era prima che fosse inventata la scrittura, ed è questo il punto interessante.

La scrittura, si sa, viene convenzionalmente fatta iniziare in Mesopotamia intorno al 3.000, 3.500 a.C., benché ovviamente sia il risultato di un lungo e graduale processo di simbolizzazione cominciato chissà quando. Con la scrittura inizia comunque la conoscenza storica del passato, la possibilità di ricostruire date, eventi, dinastie regnanti, guerre, mutamenti politici e sociali. Ma il fatto che da quel momento sia possibile ricostruirli e tracciarli non vuol certo dire che in quel momento siano iniziati. Tutte queste cose c’ erano già prima, molto prima.

Per quello che oggi ne sappiamo, l’ Homo sapiens si è avviato alla conquista del mondo, partendo dalla sua culla nella Rift Valley, approssimativamente 200.000 anni fa, ed ha raggiunto la condizione di specie dominante, dopo avere visto (o causato…) l’ estinzione di tutte le altre specie precedenti  di Homo, circa 40.000 anni fa, epoca in cui si era diffuso in buona parte dell’ Eurasia e forse alche oltre.

Ed è approssimativamente a questo punto della sua storia che l’ Homo Sapiens comincia a manifestare caratteristiche a dir poco anomale: sviluppa capacità di pensiero, abilità creative, senso artistico, tensione spirituale e religiosa insospettabili in uno scimmione. Uno sviluppo esplosivo, attribuito principalmente alla conquista del linguaggio articolato, non il linguaggio semplice nato per accompagnare i gesti, ma un vero linguaggio, capace di esprimere concetti astratti.

Sta di fatto che in questa fase l’ uomo comincia a fare meraviglie: le famose pitture rupestri di Chauvet, Lascaux, Altamira, che hanno tutta l’ aria di essere delle vere e proprie cattedrali paleolitiche, e poi sculture d’ osso, monili complessi, sepolture sofisticate, persino strumenti musicali, e, forse, calendari. Tutto lascia pensare che a questo punto della sua storia conoscesse già le stelle fisse e le costellazioni, i solstizi e gli equinozi, che avesse un calendario. Da questo  momento, l’ Homo Sapiens è davvero umano a tutti gli effetti, intelligente e creativo non meno di noi.

Questo vuol dire che, prima di cominciare a registrare gli eventi, prima dei cinquanta secoli di cui più o meno abbiamo qualche conoscenza, l’ uomo aveva sviluppato cultura per ben quattrocento secoli almeno. Quattrocento secoli.

Di questa lunghissima fase, che inizia ancora nel Paleolitico, non ci rimangono documenti scritti, ma ciò non vuol dire che non ci fosse una conoscenza e dei saperi organizzati. Insomma, non bisogna cadere nell’ errore di pensare che prima della scrittura non ci fosse nulla. Prima della scrittura c’ erano società strutturate e complesse, una tecnologia consolidata ed espressioni artistiche raffinate. Gli uomini erano pienamente umani assai prima di poterlo certificare per iscritto…

Cosa ci fosse di preciso prima della storia nessuno lo sa, ovviamente ma a me piace pensare che ci fossero le storie. Storie che spesso riguardavano il mondo circostante, spiegazioni del perché di tutto ciò che esiste, dei fenomeni naturali, del movimento degli astri, della buona e della cattiva sorte. Spiegazioni che smorzavano l’ angoscia e la solitudine di fronte al sovrastare della Natura.

Raccontare è un’ attività primaria, verrebbe da dire che è una pulsione dell’ essere umano. Raccontare storie la sera attorno al fuoco, oppure per far dormire i bimbi. Raccontare storie anche per insegnare. Raccontare storie soprattutto per dare una spiegazione all’ assurdo. Perché il mondo esiste ? Che ci facciamo noi qui ? Che cosa sono le stelle, il sole, la luna ? Perché esiste il male ? Cosa c’è dopo la morte ? Quattrocento secoli di storie per cercare di mettere ordine nel mondo. Questo è il retroterra del Mito. Da questi millenni, o decine di millenni di civiltà muta, da questo substrato ricco e fertile di umanità primordiale, da tutto ciò provengono le storie che noi chiamiamo Miti.

I miti sono fossili, reperti archeologici di un tempo remotissimo in cui il sapere umano era organizzato in modo diverso, in forme che oggi facciamo fatica a comprendere. Eppure, questo sapere esisteva in quanto si era accumulato per decine di millenni.

Questo sapere era codificato, appunto, in forma di storie, e spesso in forma di storie eroiche, fantastiche, sorprendenti e proprio per questo, facili da ricordare. Nei miti, e nelle forme di sopravvivenza del mito attraverso i racconti popolari, ed in particolare nelle storie più stravaganti ed apparentemente incomprensibili, proprio lì potrebbero essere fossilizzate tracce di un sapere preistorico, echi delle storie che madri paleolitiche raccontavano ai bambini, o tribù di migranti si narravano fra loro attorno al fuoco.

Non sapremo mai quando esattamente sono nate le storie del mito, ma la mia sensazione è che alcune di queste  potrebbero essere più antiche di quanto si pensi. Molto ma molto più antiche.

Molti studiosi hanno messo in rilievo le sorprendenti somiglianze tra miti di popoli lontanissimi vissuti su continenti diversi. J. Campbell parla addirittura di “monomito”, Santillana nel Mulino di Amleto mostra coincidenze dettagliatissime tra miti europei e miti precolombiani, o delle isole del Pacifico. Gli uomini della rivoluzione paleolitica di 40-45.000 anni fa giunsero nel Sudest asiatico 30.000 anni fa, in Sudamerica 10-15.000 anni fa. Mi domando se non potrebbero già loro aver portato con sé un sapere codificato in un piccolo nucleo di storie. Il monomito, appunto.

Ma perché proprio le storie, poi ?

Prima della scrittura c’ era (ovviamente) un enorme problema di trasmissione del sapere, che poteva solo essere affidato alla memoria. La vita dell’ uomo ha una durata effimera, pochi decenni, ed ogni nuovo nato nasce “vuoto”, con la necessità di reimparare tutto daccapo. Ora, credo sia esperienza universale che è molto più facile ricordare una storia, una narrazione piuttosto che un testo di saggistica. Raccontare una storia è un modo molto potente per trasmettere conoscenza. Ancora meglio se la storia è narrata in versi, tutti sanno che è più facile imparare a memoria una poesia piuttosto che un testo in prosa. Ed ancora di più se la narrazione in versi è scandita da una musica, ciascuno di noi, anche il più duro di cuore avrà pure in vita sua memorizzato il testo di qualche canzone particolarmente amata….

È questo il motivo per cui la letteratura nasce coi poemi, ed in particolare con i poemi epici. Ed è anche il motivo per cui, all’ interno di questi poemi, lunghe parti apparentemente incongrue riguardano ad esempio il modo esatto di eseguire un sacrificio, o le istruzioni dettagliate per costruire una nave, o addirittura un’ interminabile genealogia. Trasmissione del sapere, appunto…

Tutto il sapere veniva veicolato in questo modo, in un mondo senza scrittura, ed era importante memorizzare bene il proprio albero genealogico così come i fondamenti del proprio mestiere.

Anche così dovremmo leggere certe curiose storie mitiche e certi incongrui racconti popolari, come reliquie di un antico sapere, reperti archeologici di epoche lontanissime e per molti altri versi mute.

 

Il primo re di Sparta

Come tutti i maschietti, sono cresciuto col mito di Sparta, assai prima che Leonida diventasse quella specie di rockstar col fumetto, ed il film, “300”.

Sin dalle scuole medie si imparava che nell’ antica Grecia c’ erano due antagonisti, gli Ateniesi e gli Spartani, e che la loro contrapposizione era una contrapposizione fra modi alternativi ed inconciliabili di intendere il mondo e la vita.

Era quello l’ archetipo di tutte le dicotomie, su quel modello avremmo poi plasmato tutte le successive contrapposizioni, Cesare e Pompeo, Mario e Silla, il papato e l’ impero, la Francia e la Spagna, i cowboys e gli indiani, fino ai Beatles ed i Rolling Stones, Juve e Inter, USA e URSS, e così via.

O di qua o di là, questo diceva la contrapposizione, non puoi stare in mezzo non puoi sederti sul confine, ‘sitting on the fence’ dicono gli inglesi. Una scelta devi farla, e quella scelta ti caratterizza e continuerà a definirti a lungo, in qualche caso per sempre. Chi nasce interista non muore juventino, e viceversa.

Ora, è chiaro che a ragion veduta si sarebbe dovuto dire Atene. Più alta la sua cultura, più ricca a sua arte, più variegata la sua storia, gli ateniesi sembravano avere tutte le briscole in mano o quasi.

Però.

Però un maschietto adolescente fatica a regolarsi secondo ragion veduta, fatica proprio.

Ascolta piuttosto la passione, il cuore, la pelle. La pancia.

Quando mai si è scelto col ragionamento per quale squadra tifare ? Non per niente si chiama “squadra del cuore”.

Questo per dire che gli Ateniesi stavano un filo antipatici, con quell’ aria di superiorità che “sono bravo solo io” da saputelli secchioni.

Certo, bravi erano bravi davvero, persino troppo. Ma nessuno ama veramente il primo della classe, e se lo si vede in difficoltà in un’ interrogazione, in fondo in fondo un po’ si gode.

Questo per dire che, un po’ segretamente all’ inizio, poi sempre più apertamente a mano a mano che il consenso cresceva, noi ragazzini si teneva più per Sparta.

Gli Spartani una sola cosa sapevano fare, ma la facevano proprio bene: menare le mani.

Il che per un ragazzino nell’ età adolescenziale è più o meno il massimo della vita.

A quest’ unico scopo, com’ è noto, gli Spartani dedicavano tutta la loro vita, i ragazzini venivano tolti alle famiglie e messi in “collegio” o qualcosa del genere, e giù marce forzate, palestra, notti al gelo e tante, tante botte. Scuola, non molta, leggere, scrivere e poco di più, e questo non dico che per qualcuno fosse un ulteriore motivo per amarli, ma insomma non guastava.

L’ unica cosa che turbò l’ idillio, quando fummo più grandicelli, fu scoprire che gli Spartani si chiamavano in realtà Lacedemoni. Perché invece tutti li chiamassero spartani, è un mistero che non sono mai riuscito a chiarirmi del tutto.

Certo è che Sparta è un nome assai più bellicoso, già nel suono della parola stessa, c’è la “S” come il sibilo di una spada che fende l’ aria, seguito da quel che sembra un colpo d’ arma da fuoco, una “r” sonora come un rombo di tuono e chiusa da un colpo secco, di quelli che mettono fine ad un duello.

“S-PAR-TA”. “S-PAR-TA”.

Lacedemone invece, diciamocelo pure, è il nome meno bellicoso che esista, tutto pacifiche labiali, pare evocare languidi baci e morbide carezze, piuttosto che duri scontri fra guerrieri. Un brutto colpo al prestigio. Però, siccome non era obbligatorio chiamarla così, Sparta era didatticamente accettato, l’ inconveniente si presentava solo in occasione delle versioni, e per il resto si poteva tranquillamente fare finta di niente.

Diventato ancora un po’ più grande, un nuovo rovello cominciò a farsi sentire.

Prendete una mappa della Grecia, una mappa attuale intendo dire.

Credo che nessuno abbia difficoltà ad individuare Atene, praticamente a colpo d’ occhio, se non altro perché il nome è scritto più grande di tutti gli altri. Con un po’ di applicazione vedremo anche Corinto, Micene, Argo, Tebe.

E Sparta dov’è ?

Più o meno ci ricordiamo tutti che è da qualche parte lì in mezzo al Peloponneso, però il nome non compare da nessuna parte, né Sparta, né Lacedemone. Bisogna proprio andarla a cercare, ed una volta trovata (e scoperto che oggi si chiama Sparti !) la delusione è grande.

Niente templi, niente teatri, niente monumenti. Zero al cubo.

Sui teatri, va bene, si capisce, gli Spartani non erano certo tipi da agghindarsi nel dì di festa per andare a vedere una rappresentazione.

Ma qualche tempio dovevano pur averlo costruito, no ?

Si scopre allora che “Sparta” di per se vuole dire “la sparpagliata”, “la dispersa”.

Insomma un vera e propria città non c’ era, piuttosto un allegato di villaggi tenuti insieme con la forza.

La cosa aveva fatto una certa impressione persino su Tucidide che commenta: “raccogliendosi la città intorno ad un unico nucleo privo di templi e di costruzioni sontuose, con la sua caratteristica struttura fatta di villaggi sparsi, secondo l’ antico costume greco, parrebbe una mediocre potenza…”

Va bene. Non ci scoraggiamo. In fondo più che l’ apparenza vale la sostanza.

La prima volta che si sente parlare di Sparta è nell’ Iliade. Avremmo imparato più tardi che la Sparta dell’ Iliade non è quella delle Termopili, di mezzo c’è l’ invasione dorica, ma da ragazzini non si va tanto per il sottile, e Sparta nell’ Iliade c’è.

Anzi, ad essere precisi possiamo dire che Sparta è all’ origine stessa della guerra di Troia. È infatti re di Sparta Menelao, sposo della bellissima Elena, ed è lui ad ospitare il principe troiano Paride, il quale com’ è noto non si comporta propriamente da gentiluomo e fugge con la moglie di lui, Elena appunto.

Ora, è chiaro che la cattiva azione è di Paride, su questo non si discute. Però Menelao non ci fa proprio una gran figura, mi pare. Non proprio da spartano, diciamo.

Come che sia, cosa fatta capo ha, e lo sgarro è duplice, e cocente: da un lato le corna, dall’ altro la violazione dell’ ospitalità, ed è persino difficile stabilire quale tra le due sia l’ offesa più grave. Urge vendetta, insomma, che come minimo prevede di radere al suolo la città del mascalzone.

È per questo che si raduna la flotta, e si parte per la decennale contesa.

Ma, sorpresa sorpresa, a comandare la spedizione non è Menelao re di Sparta ferito nell’ onore, ma il di lui fratello Agamennone, re di Micene e cognato di Elena, avendone sposato la sorella Clitemnestra.

Credo che chiunque abbia avuto a che fare con l’ Iliade abbia notato questa anomalia: come mai se l’ offeso è Menelao non è lui in prima persona a comandare l’ esercito ?

La spiegazione Omero non la da, ma qua e là qualche indizio lo lascia cadere.

Per esempio, nel II libro:

“Agamennone (…) invitò i capi, i principi di tutti i Greci,

per primi Nestore e il re Idomeneo,

poi i due Aiaci e il figlio di Tideo,

per sesto Odisseo, pari a Zeus per saggezza”

 

non manca nessuno ?

Ah, già:

“Venne da sè Menelao, possente nel grido di guerra…”

Come sarebbe a dire, venne da se ?

Come ricorda impietosamente Platone nel Simposio, “Menelao si presentò non invitato al festino, lui peggiore al banchetto di chi era migliore di lui”.

Ah. Andiamo bene.

Ma in fondo, uno spartano basta che sia bravo a menare, e non ha bisogno d’ altro, giusto ?

Ed allora ascoltiamo Apollo, nel XVII ° libro, apostrofare Ettore:

“Ettore, quale altro tra i Greci ormai avrà paura di te ?

Ti sei ritirato davanti a Menelao, che in passato

era un guerriero da poco…”

Apperò, ‘sto primo re di Sparta…

Io, Prometeo, vostro dio (seconda parte)

(…)

Ve l’ ho detto, siete nati in tempi di guerra, frugoletti miei. Una guerra tremenda che Zeus ed i suoi déi novellini non si sarebbero mai sognati di vincere se avessero combattuto lealmente. Ma pur di spuntarla, quel figlio di padre Crono non si fece scrupoli a scendere nel Tartaro e dare la libertà ad ogni sorta di avanzi di galera, giganti, ciclopi o centìmani che fossero. Tutta gentaglia che lo zio Crono aveva spedito laggiù per validissimi motivi. Ve l’ avevo detto, no, che fra titani e giganti c’è una bella differenza.

Ora, combattere lealmente è una cosa, il tuo avversario ti scaglia addosso un macigno e tu lo ricambi, ma se quello che ti viene incontro ha cento mani, allora le cose cambiano, no ? Senza contare il supporto tecnologico dei ciclopi. Chi credete che le abbia fabbricate le folgori di Zeus ?

Insomma, fummo sconfitti, distrutti, sgominati. Sprofondati nel Tartaro, al centro della Terra, mio fratello Atlante esiliato alla fine del mondo a reggere il cielo sulle spalle. Game over. Ecco perché non vi ricordate più di noi, se non quando volete dare un po’ di colore a qualche film fantasy. Vi ricordate semmai di un’ altra storia, quella degli angeli ribelli e caduti, e nemmeno vi rendete conto che è una cover fatta qualche millennio più tardi.

Ma nel frattempo, io qualche soddisfazione me l’ ero presa, sapete. È per quello che il figlio di Crono ce l’ aveva tanto con me, per tutte le volte che l’ avevo fatto fesso. E la storia del fuoco fu solo la goccia che fece traboccare un vaso già colmo. E poi, nemmeno questa storia si racconta bene, gli uomini il fuoco già ce l’ avevano, figuriamoci, Zeus glielo aveva tolto per pura gelosia nei miei confronti ed io di nascosto lo rubai e semplicemente glielo restituii. Vi pare una cosa poi così grave ? Ma, chissà perché, lui s’ era messo in testa che col dominio del fuoco gli uomini sarebbero diventati più potenti di lui. S’ era proprio fissato, con questa storia. Passi la medicina e l’ edilizia, passi leggere scrivere e fare di conto, passi la pastorizia e l’ agricoltura intensiva, ma il fuoco no. Si può essere più idioti di così ?

E allora vendetta, tremenda vendetta. Lo sapete, no, quello che mi fece. Incatenato alla rupe per trentamila anni, con l’ aquila che ogni giorno mi divorava il fegato, ed il fegato che ricresceva la notte per non lasciare mai a digiuno il passerotto. Ah, questo ve lo ricordate, chissà come mai. Le scene splatter, quelle non le dimenticate, vero ? Non ricordavo di avervi fatti così perversi.

Che razza di supplizio, poi. Una roba così fra noi immortali non si dovrebbe nemmeno concepire. Ci si combatte, certo, anche duramente, ma il rispetto non si dovrebbe mai perdere. Incatenato sulla pietra gelida, nudo come un verme, quell’osceno uccellaccio addosso, a frugarmi nelle budella. Una cosa così getta discredito su chi la inventa, lasciatemelo dire. Un sadico, e non aggiungo altro.

Ma io lo so perché l’ ha fatto, io lo so da dove viene tanto smisurato astio nei miei confronti. Complesso di inferiorità, così si chiama. Puramente e semplicemente, io sono sempre stato più intelligente di lui, e lui se ne rendeva conto perfettamente. Uno come Zeus, una cosa così non poteva proprio tollerarla.

Figuratevi che per giustificare in qualche modo questa vera e propria persecuzione nei miei confronti, mise persino in giro la voce che io ero, addirittura, figlio illegittimo della sua consorte Era. Io, proprio io che l’ avevo visto nascere. Lui, proprio lui che la povera Era la riempiva di corna ad ogni respiro. Capite che personcina a modo, il grande Zeus ?

E dunque stavo lì, inchiodato sul Caucaso, per secoli e millenni. E che cosa si proponeva di ottenere, quel galantuomo ? Non ci arrivate ? Sottomissione, questo voleva. Si aspettava che mi gettassi a tappetino davanti ai suoi piedi implorando clemenza. Voleva esibirmi come testimonial, a coronare la sua gloria. Ma un titano è fatto di un’ altra pasta, amici miei.

Incatenato, lacerato, ma non spento. Dall’ alto delle montagne del Caucaso tutti i giorni, per tutto il giorno lo insultavo, lo provocavo, lo schernivo. Poi superai me stesso. Visto che il mio nome vuol dire “colui che conosce prima”, perché non approfittarne ? Mi inventai un complotto, un piano segreto. Cominciai a bofonchiare profezie oscure, lasciai intendere che Zeus era predestinato a fare la fine di Urano e di Crono, che se si fosse sposato, uno dei suoi figli l’ avrebbe spodestato, e che io sapevo chi, quando e come. Ci fossero stati i Templari a quei tempi, li avrei tirati dentro. Vedo che mi capite, eh ? Queste cose non passano mai di moda, lo so. Certo che vi ho fatto creduloni assai.

Zeus ci cascò in pieno, con tutti e due i piedi. Si terrorizzò, credetemi. Vedete cosa vuol dire avere la coscienza sporca ? Tra l’ altro lui in quel momento aveva perso la testa per Teti, e non sapeva più che fare. Dire a Zeus di non fare figli era come dire al mare di rimanere asciutto. L’ autocontrollo non è mai stato il suo forte, diciamolo. E così, io ero dilaniato, ma Zeus dormiva preoccupato. Non dico che sghignazzavo, ma quasi. Ad un certo punto mi mandò persino Ermes, il suo traffichino preferito, il più viscido tirapiedi che si sia mai visto fra gli immortali. Ed io lo mandai a quel paese, insieme al suo padrone.

Insomma, supplizio a parte, mi sono preso delle belle soddisfazioni.

Ecco perché alla fine Zeus se la prese con voi, creaturine mie predilette. E che cosa vi fece, ve lo ricordate ? Scommetto di no. Fece Pandora, ecco cosa fece.

Ora, bisogna dire che io di donne non ne avevo create. Nemmeno una. Tante statuine d’ argilla, avevo fatto, ma tutte uguali, col pistolino, e se proprio volevano, che trovassero il modo di divertirsi fra di loro. Io con la storia di Eva, almeno quella, non c’ entro niente. Ammesso poi che ci faccia una gran figura, un Dio che deve correre ai ripari già subito dopo aver creato il primo uomo. E con una costola, poi. E che, non c’ era più creta in tutto l’ Eden ? No, non è così che fa le cose un titano.

Ma, senza donne, come facevano gli uomini a riprodursi ? Semplice. Non si riproducevano. Ogni volta che cominciavano a scarseggiare, prendevo un po’ d’ argilla e ne modellavo degli altri. Capite cosa vuol dire sempre avere il controllo della situazione ? Perché io vi ho sempre voluto bene, creaturine mie, ma di voi non mi sono mai fidato troppo.

Poi arrivò lui, l’ intelligentone, e fece la prima cosa che gli venne in mente, e dovete sapere che a Zeus la prima cosa che viene in mente è sempre la stessa.

E dunque fece fare questa donna bellissima, frutto di una vera e propria cooperativa. Efesto la plasmò con l’ argilla, che lui non si sarebbe certamente sporcato le mani, Atena la vestì, Afrodite la rese esperta nelle sue arti, per usare un eufemismo ed Ermes (e chi altri ?) la dotò di una mente contorta, ambigua e menzognera.

A chi rifilò Zeus questa fregatura ? E qui mi duole ammetterlo, ma sapete, in molte famiglie c’è un fratello un po’ tontolone, non è così ? Bene, mio fratello si chiamava Epimeteo, “quello che ci arriva dopo”, e non dico altro. E pensare che lo avevo anche avvisato, prima di partire per il Caucaso, di non portarsi in casa regali di Zeus, per nessuna ragione.

Il resto lo sapete. Epimeteo e Pandora. Il vaso incautamente (incautamente ?) aperto, dolori, pene e malattie che si diffondono tra i mortali. Il sudore della fronte. Sì, bravissimi, è proprio la storia che vi hanno raccontato col titolo “cacciata dall’ Eden”, starring Adamo ed Eva. Proprio quella.

Insomma, io vi ho fatto e voi manco vi ricordate di me, se non fosse per qualche film di fantascienza di tanto in tanto. Dovrei distruggervi tutti, ve lo meritereste.

Ma a me non importa poi tanto.

Vedete, dopo trentamila anni sopra una rupe, cosa volete che siano pochi insignificanti millenni di oblio ? Il mio tempo tornerà, statene certi, così come ne sono certo io, io Prometeo, colui che vede le cose prima, il vostro dio.

Siete avvisati.

Io, Prometeo, vostro dio (prima parte)

Mi chiamo Prometeo e sono il vostro dio.

O meglio, tecnicamente parlando, sarei non precisamente un dio ma un titano. Ma considerato che voi mortali a stento vi ricordate che cos’ è un dio, figuriamoci se pretendo che vi ricordiate dei titani, per di più con tutta la disinformazione che è stata fatta dopo la nostra caduta. E pensare che vi ho fatti io, ed ancora mi domando perché.

Ma andiamo con ordine.

All’ inizio c’ era il caos, siamo d’ accordo ? Su questo mi auguro che non ci siano dubbi, ve l’ hanno insegnato al catechismo, ve l’ hanno confermato pure al liceo scientifico, perché in fondo cos’ altro sarebbe il Big Bang se non, appunto, il caos primigenio ? Allora diamo questo punto per assodato.

E dunque dal caos primordiale emersero due entità, il Cielo e la Terra. E se pure questo vi suona familiare, abbiate la compiacenza di non interrompermi. Non è come pensate voi. Dal caos, dicevo, furono generati il Cielo e la Terra, o più precisamente, Urano e Gea, ed i due si piacquero subito. Anzi, a dire il vero è soprattutto ad Urano che Gea piacque tanto, ma proprio tanto, così tanto che in pratica le stava sempre addosso, giorno e notte, a darci dentro, non so se mi spiego. Un vero maniaco.

La povera Gea restava regolarmente incinta, e come avrebbe potuto evitarlo, del resto, ma con quel bestione che non si scollava da lì come avrebbe poteva dare alla luce i figli ? Lì, schiacciati fra il cielo e la terra sarebbero rimasti in eterno, i titani, per tutti e secoli dei secoli e buonanotte.

Eppure, dagli e ridagli, un errore lo fece pure Urano, e fu quello di generare un figlio di troppo. Crono, il più sveglio, coraggioso e forte titano che si fosse mai visto, si capiva subito che era di un’ altra pasta.

Non so di chi sia stata l’ idea, se sua o della madre Gea, ma fu lei che comunque dovette procurare l’ arma. Era una falce, nemmeno tanto grande, un attrezzo da giardiniere più che da contadino, ma sufficiente allo scopo. E quando, una volta di più, Urano saltò addosso alla legittima, a Crono bastò un colpo solo, zac !, ad assicurare che Urano non avrebbe più fatto l’ amore con nessuno.

E che, pensavate che il conflitto fra padri e figli fosse nato con Edipo, o peggio ancora col dottor Freud ? Mi chiedo come ho fatto a farvi così tonti.

Insomma, immaginate la scena, sangue da tutte le parti, altro che cherubini e serafini, Urano che urlando e maledicendo fa un salto indietro e si arrocca lì, dove ancora lo vedete, in cielo, certo, e dove se no ? E siccome dalle nostre parti non si butta via niente, dall’ insaziabile apparato riproduttivo di Urano, caduto in mare viene fuori lei, la bellissima, insomma Afrodite, una figura da togliere il fiato, per di più insaziabile quanto il papà. Ma non divaghiamo.

Liberati dal peso opprimente (in tutti i sensi) del monomaniaco genitore, venne finalmente alla luce la prima generazione di titani, sei maschi e sei femmine, tra i quali il mio genitore Iapeto. E con loro l’ era gloriosa dei titani ebbe inizio.

Ce ne hanno dette di tutti i colori, lo so. Hanno sostenuto che eravamo dei barbari, dei bruti, selvaggi crudeli e prepotenti. Tutta propaganda. In tempi non sospetti, saranno i mortali stessi a chiamare la nostra era “l’ età dell’ oro”, ammettendo che mai più in futuro ebbero a provare un simile grado di felicità.

Sentite Esiodo:

“prima una stirpe aurea di uomini mortali

fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore. (sta parlando di me !)

Erano ai tempi di Crono, quand’egli regnava nel cielo;

come dèi vivevano, senza affanni nel cuore,

lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava

la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia,

nei conviti gioivano, lontano da tutti i malanni”

Un paradiso terrestre, lo chiamerebbe la concorrenza. Ma non anticipiamo i tempi.

Non dovete pensare neppure per un momento che in quell’ epoca barbarica eppure rimpianta non esistessero forme di organizzazione fra noi titani. Saremo stati primitivi, ma non stupidi. C’era il titano preposto ai fiumi e quello dell’ oceano, il titano della saggezza, la titanessa dei ricordi e quella della giustizia. Un consiglio dei ministri, praticamente. Gli dei dell’ Olimpo, credetemi, non hanno inventato proprio niente.

Che tempi, furono quelli, e quelli furono i tempi, più o meno, in cui venni al mondo io, ultimo di quattro fratelli, Prometeo, figlio di Iapeto e Climene, “colui che guarda avanti”, così mi battezzarono, il titano del futuro, direbbe chi non conoscesse già il resto di questa storia. Titano, ripeto. Né gigante né ciclope, titano, d’ accordo ? Che poi, se dovessi davvero chiedervi di dirmi almeno una differenza, sono sicuro che l’ unica cosa a venirvi in mente sarebbe quella bufala dei ciclopi con un occhio solo, tanto per dire quanto ne sapete di queste cose. Ma sorvoliamo.

Nel frattempo anche Crono, nostro re, si era felicemente accasato, e si era pure messo a fare figli. E lì cominciarono i guai, purtroppo. Ora, si può capire bene che Crono, dopo avere castrato il padre, si sentisse assai a disagio nel trovarsi a sua volta nel ruolo di padre. E se uno dei figli gli avesse un giorno ricambiato la cortesia ? Chi poteva escluderlo ? Un po’ meno si capisce la sua reazione, però. Sarà che il potere rende tutti un po’ paranoici, sarà che Crono del tutto normale non era mai stato, sarà quello che volete, ma il fatto è che prese l’ abitudine di ingoiare regolarmente i figli appena nati, ecco.

Sì, va bene, abbiamo capito, è chiaro che si tratta di una metafora, il tempo che divora i suoi stessi figli. Non avete capito niente, invece. Ma davvero pensate che un mito (un Mito !) si presti a letture così sciatte e banali ? Ma perché vi ho creato così pigri ? Crono non divorava i suoi figli, li ingoiava, la capite la differenza ? I suoi figli non erano maciullati e digeriti, vivevano dentro di lui, come la nonna di Cappuccetto Rosso dentro il lupo, se proprio non c’è altro modo di farvelo intendere.

Figli del tempo che vivono dentro il tempo, provatevi un po’ a risolvere questa, di metafora, sapientoni miei carissimi.

E da lì parte un film già visto, direste voi. La madre, stufa di sfornare bebè che il padre usava come pastiglie, riesce con un gioco di abilità a celare l’ ultimo nato, Zeus, sostituendolo con un sasso avvolto nelle fasce regolamentari. Crono, svagato, manda giù senza nemmeno un sorso d’ acqua. Il piccolo è salvo, e viene prudentemente mandato a balia lontano da casa, chi dice a Creta, chi dice altrove. A tutti piacerebbe rivendicare un merito del genere, no ? I Cureti, le Ninfe, i Dattili, la capra Amaltea, il monte Ida, col senno di poi si faranno avanti eserciti di sedicenti balie e precettori speranzosi in una ricompensa.

Di più non so dirvi, cuccioli miei, se non che il giovane Zeus crebbe sano, forte, spregiudicato e pieno di rancore verso il divino genitore, tanto per cambiare. E così, al compimento della maggiore età, che per gli dei è di svariati millenni, ecco Zeus presentarsi all’ incasso, col decisivo sostegno (e ti pareva) di mamma Rea. Non so con quale stratagemma lei abbia indotto al vomito il maritino; per quello che posso dire io, le sarebbe bastato calcare la mano appena un po’ con uno dei suoi famigerati pranzetti di cui andava incomprensibilmente fiera, atteggiandosi a grande cuoca. Lasciamo perdere.

Come che sia, ecco zio Crono piegato in due a vomitare nell’ ordine: il sasso, Ade, Poseidone, Demetra, Estia. Mezzo futuro Olimpo inizio lì, sul pavimento sozzo. Tutti belli, vispi ed incazzati dopo qualche millennio trascorso nella pancia di Crono.

E lì furono mazzate, sapete, botte da orbi, o da ciclopi. Zeus pretendeva il trono, voleva che Crono si facesse da parte, lui non aveva intenzione di cedere di un millimetro. Vecchi titani contro nuovi dei, scommetto che lo chiamereste conflitto generazionale. Immaginatevi una battaglia fra supereroi, che si tirano addosso macigni grandi come case. Titanomachia, altro che storie. Dieci anni durò la guerra, ne più né meno di quella di Troia, solo che della nostra hanno cancellato anche il ricordo. I nuovi dei erano forti, ma noi titani eravamo più anziani ed esperti, e tenevamo botta.

Fra una zuffa e l’ altra la vita continuava, ed un bel giorno a me sottoscritto Prometeo titano venne in mente un’ idea assai stravagante. Presi un po’ d’ argilla, l’ impastai, formai una piccola figura con due braccia e due gambe, ci soffiai sopra.

Sì, lo so, ve l’ hanno raccontata in un altro modo, questa storia, ma io che ci posso fare ? E’ la propaganda, l’ ho già detto. Vi dico una cosa. Ancora nel secondo secolo dopo Cristo, ai tempi di Marco Aurelio, Pausania racconta che nei pressi di Panopeo, in Focide si potevano vedere carrettate di argilla dal caratteristico odore di pelle umana. I miei avanzi. Sta scritto, altro che chiacchere. Chiedete a quegli altri che fine ha fatto l’ argilla di Adamo, e vediamo che cosa vi rispondono. Neanche un pezzettino. Lasciamo perdere.

E dunque fui proprio io Prometeo a crearvi con le mie manone, per quanto la notizia possa turbare le vostre fragili menti. E non mi limitai a crearvi e basta, se è per quello. Sì, lo so, la storia del fuoco ve la ricordate. Come se mi fossi limitato a portarvi il fuoco e basta. Ma perché vi ho fatti così superficiali ?

Vi ho creati che eravate nudi e fragili, rintanati nelle grotte, colonie di formiche sembravate. E nemmeno formiche sveglie, a dirla tutta. Cavernicoli, eravate. Vi ho insegnato tutto, a fare le case e lavorare il legno, a coltivare la terra ed allevare gli animali. Vi ho insegnato l’ alfabeto e la matematica, la medicina e l’ arte della divinazione. Mi dovete tutto. Però, chissà perché, solo del fuoco vi ricordate.

Che poi quella è tutta una storia a parte, se ci tenete a saperlo.

(continua…)

La Bellezza prima di tutto

 


 

 

Sedevano dunque gli anziani presso le porte Scee;
a motivo della vecchiaia non combattevano più ma erano validi
oratori, come cicale che nella foresta,
stando sugli alberi, emettono un canto acuto:
così i principi di Troia stavano sopra un bastione,
quando videro Elena arrivare l bastione,
si dissero a bassa voce l’ uno con l’ altro:
“non sono da criticare i Troiani e gli Achei dalle belle gambiere,
se tanto tempo hanno sofferto per una simile donna,
che terribilmente somiglia alle dee immortali.”
 
Iliade, Libro III, 149-158

 
 
 Nel mondo del mito la Bellezza viene prima di tutto, e precede la Verità.

Si racconta  l’ origine del mondo e delle cose, si cercano spiegazioni ai fenomeni naturali, si cerca in qualche modo di ricondurre l’ imprevedibilità della vita ad una storia che può essere raccontata e compresa. Il mito risponde alla domanda “Perché le cose stanno in un certo modo ?” in maniera storica, cioè alla maniera dei bambini, raccontando una sequenza di eventi che portarono le cose ad essere come sono, e non in maniera scientifica indagandone i rapporti di causa ed effetto.
 
Il requisito principale di una spiegazione mitica del mondo non è quella di essere “vera”, tutt’ altro, e la cosa appare chiara all’ interno del mito stesso. Di ogni mito esistono infatti innumerevoli varianti, la stessa storia è raccontata in mille modi diversi secondo i luoghi e gli umori di chi racconta. Questo è tipico di ogni tradizione orale, quando la storia si tramanda attraverso il racconto è inevitabile che intervengano mutazioni ed adattamenti alle realtà ed usi locali. Ma è anche vero che i poeti che questi miti per la prima volta misero per iscritto non si posero certo il problema di una ricostruzione filologica della storia che aveva originato il mito stesso, ma la raccontarono così come veniva, e nella maniera più bella che riuscirono ad escogitare.
 
E c’è anche da dire che neppure una volta messo per iscritto il mito resta cristallizzato per sempre. Al contrario, continua a muoversi ed evolversi. I grandi miti del passato, ed i nostri sono sostanzialmente quelli ereditati dalla tradizione greca, non hanno mai smesso di alimentare la fantasia degli artisti.
Ulisse continua ancora oggi a rappresentare il mito del viaggio, della curiosità e della scoperta, dopo venticinque secoli. Il mito sembra capace di attivare un’ispirazione creativa, non puramente replicativa, e non ha mai accampato pretese di sacrale intoccabilità, al contrario.
L’ Ulisse di Dante è certamente diverso da quello di Omero, per non parlare poi di quello di Joyce, che ne recupera quasi solo il nome e lo schema allegorico del viaggio.
Il mito di Ercole si trova riproposto persino in un cartone animato di pochi anni fa, ma nuovamente senza pretesa alcuna di fedeltà all’originale.
“Liberamente tratto” sembra essere il marchio di fabbrica delle storie mitiche, sin dalla antichità, le versioni alternative si sovrappongono e convivono, ogni artista si sente autorizzato ad introdurre varianti personali.
 
Tutto ciò accade appunto perché in qualche modo si percepisce che lo scopo del mito non è quello di raggiungere la verità. Se ne rendevano bene conto anche gli antichi. Storie e tradizioni popolari di eventi soprannaturali ed eroi e mostri, orchi e cavalieri ce ne sono sempre state, si sono sempre tramandate, ma nessuno le ha mai prese per oro colato.
 
Si può pensare per analogia al racconto biblico dell’arca di Noè con le coppie di animali da salvare. E' mai stato preso alla lettera ? Qualche fondamentalista di certo lo fa, ma tutti gli altri considerano puramente il valore metaforico del racconto.
Non è  la verità la pietra di paragone del mito, il suo valore specifico non dipende dal fatto di essere vero, nessuno neppure si aspetta che la storia raccontata dal mito sia una storia vera. Storie eterne mai accadute, questo sono i miti.
 
Ma se non è la verità a costituire l’ essenza ed il valore del mito, allora che cosa è ?
La bellezza, ovviamente.
Quello che attribuisce valore ad un mito non è il fatto di raccontare una storia vera, anche chi il mito lo considera sacro in qualche modo questo lo percepisce. Non è questo il punto. 
E non è neppure il fatto che il mito racconti una storia edificante, quale insegnamento morale mai si potrà mai trarre dagli amori clandestini di Zeus o dalle sanguinolente vicende degli Atridi ? I miti non raccontano storie “buone”, e neppure storie vere.
 
Il punto è che i miti raccontano storie “belle”. Spesso parliamo di una bellezza crudele e primordiale, una bellezza fatta di coinvolgimento emotivo potente. Ma sempre bellezza è.
Per questo continuiamo a raccontarci le storie degli dei e degli eroi dell’ antica Grecia, continuiamo a riprenderle e trasformarle, le usiamo come materiale da costruzione per nuove storie.
 
Lo facciamo perché sono storie belle, ed una storia bella è una storia in grado di dirci su noi stessi assai più di una storia vera, o di una storia buona.
L’ epoca del mito è un’ epoca in cui la bellezza viene prima della verità e del bene, la bellezza è ancora, nel sistema di valori umani, il più elevato e desiderabile. La Bellezza viene prima di tutto.
 
È con l’ avvento dei primi filosofi che questo stato di cose comincia  a mutare, i filosofi proprio al mito reagivano, e proprio in nome del fatto che la verità dovesse essere il valore supremo, al quale sacrificare, se necessario, anche la bellezza. Meglio la verità, dovesse anche essere brutta, pensavano i filosofi, peraltro intimamente convinti che la verità non potesse non essere anche bella, e questo da allora in poi è stato il modo di pensare di tutto l’ Occidente.
Ma prima di quel tempo ce ne fu un altro, il tempo del mito, in cui si sarebbe detto l’ esatto contrario, è meglio una storia bella, anche se non dovesse essere vera.
 
Si è mantenuto il culto della bellezza nell’arte, questo è vero. La bellezza di un romanzo non viene meno sapendo che ciò che racconta non è “vero", però questo apprezzamento resta confinato al fatto di essere appunto "solo" un romanzo, un’opera di fantasia che appartiene alla sfera del tempo libero, dello svago, del piacere privato.

Il mito no.
Il mito era assai più di questo, era il cemento della comunità, un cardine coesivo che poggiava appunto sulla Bellezza.
 
Non capita spesso, ma ogni tanto capita di incontrare qualcuno che questa cosa la comprende bene ancora oggi:

 

“Noi non abbiamo il petrolio, abbiamo la bellezza !
Ragazzi, la bellezza è una preghiera, se non lo capiamo e la trascuriamo crollerà tutto (…)
La vita è dura e difficile, e non vi salva la mano calda dell’ amico, della moglie o dell’ amante, siete soli e dovete trovare qualcosa che vi dia la bellezza, che è il più grande conforto, una preghiera. Perché ti tiene in devozione, ti fa rendere grazie.”

Tonino Guerra, Repubblica 15/3/11

Raffaele da Partenope

  • Raffaele, sei stato assegnato ad un cantiere in Canada. Per una volta, basta col deserto.
  • Grazie.
  • Non mi devi ringraziare, io non c’ entro, l'  ho saputo e te lo sto dicendo.
  • E vabbuò, un grazie in più è meglio di uno in meno.
  • Mi raccomando, non fare cazzate col capocantiere
  • Il cantiere è buono e il capocantiere è occhei.
  • Non attaccare lite coi grizzly.
  • I grizzly sono pecorelle rispetto ai miei colleghi.
  • Non molestare le alci femmine.
  • Perché le cammelle sì e le alci no ?  
  • Copriti che fa freddo.
  • Mi sono trovato la coperta dove fa caldo figuriamoci se non  la trovo dove fa freddo.

Che ci crediate o no, il colloquio è autentico.

Dana

 


 

 

Non c’è allegria in una stazione ferroviaria.
Le stazioni hanno un odore particolare, inconfondibile ed inquietante, un misto di ferro, olio, umido e stantio, un odore ansiogeno che già evoca malinconia, dispiacere, nostalgia, che abbatte ogni entusiasmo. Lì sta il loro fascino.
 
Lorenzo s' era sempre sentito triste, ogni volta che era salito su un treno, anche quando andava in vacanza, persino la volta che era partito per la prima vacanza da adulto, verso una Londra a lungo immaginata, e poi attraverso l’ Inghilterra verso le mitiche terre del Nord, fino a sua maestà la Scozia. No, non s’ era mai sentito felice su un treno, per quanto il treno rivelasse talvolta un insospettabile potere socializzante, trasformando compagni di viaggio occasionali in compagni di vacanza e persino, per qualche tempo, in veri e propri amici da frequentare.
Meno che mai si sentiva felice adesso che gli toccava tornare in caserma dopo quella disastrosa licenza.
 
Lucia l' aveva accolto con un entusiasmo un po’ forzato, che non riusciva a nascondere una punta di insofferenza. O almeno, così gli era parso. Niente di macroscopico, si capisce, piccoli segnali di cui neppure poteva dirsi certo. L’ impercettibile ritrarsi quando l’ aveva baciata, l’ attimo di irrigidimento mentre la prendeva sotto braccio.
Aveva un altro ?
Se l’ era chiesto, senza trovare risposta. Lucia era sempre stata un po’, come dire? Volubile ? No, non era la parola giusta. Era sempre stata più volatile che volubile, ecco, una bella ragazza cui bisognava prestare cure costanti, perché altrimenti, inesorabilmente, si allontanava. Non necessariamente per via di qualcuno, o almeno lui non aveva mai avuto questa  impressione, però di certo s' allontanava.
E questa sua necessità di cure costanti ed assidue, quasi fosse un delicato fiore di serra, lo avevano messo a dura prova.
Le ragazze belle sono così, pensava, bisogna stargli dietro, corteggiarle continuamente, si sa, non sono come tutte le altre. Sono belle. È proprio quello il problema.
Ma che cosa si potrà mai realizzare in questo modo, in questo perenne rincorrere e recuperare, come quei giocolieri che fanno roteare piatti in cima ai bastoni ed è tutto un correre avanti e indietro perché se un piatto rallenta finisce per cadere. Qual’ è lo scopo di tanto agitarsi ? Era così che voleva passare la vita, a correre dietro ad una compagna del genere, era questo il prezzo da pagare per avere al fianco una bella donna? Ne valeva la pena ?
Lorenzo allontanò infastidito questi pensieri guardando le luci del treno che s’ avvicinava.
Tutta colpa della stazione e della sua atmosfera deprimente. E di notte per di più.
 
“E saranno gemiti e stridor di denti” mormorò fra se mentre il treno si fermava davanti alla banchina, per l’ appunto, con metalliche urla e striduli lamenti dei freni.
Decisamente non era dell’ umore migliore.
 
Cercò di scuotersi dal torpore, batté i piedi per scrollarsi di dosso il freddo e l’ umidità e salì sul treno, dirigendosi verso lo scompartimento indicato sul biglietto.
Era quasi pieno. Addio all’ illusione di potersi stendere e dormire un po’. Fortuna che il suo posto era di fianco al finestrino e gli permetteva quanto meno di appoggiarsi contro la parete, nell’ angolo. Non pensava di dormire chissà quanto, si capisce, ma era sempre meglio che niente.
E poi magari qualcuno sarebbe sceso nelle stazioni intermedie.
 
Diede un’ occhiata ai compagni di viaggio.
Buona parte dello scompartimento era occupata da una famiglia, padre, madre e due figli, grandicelli e già addormentati. Non dovevano passarsela troppo bene, a giudicare da abiti e bagagli. Lui, un ometto piccolino con una giacca grigia di lana sulla camicia senza cravatta, ricambiò il saluto con un inconfondibile accento napoletano. La moglie, ancora più minuta, indossava un abito a fiori con un velo scuro in testa, e si limitò ad un cenno.
I due ragazzini dormivano sul sedile intrecciati in un abbraccio, e Lorenzo non riuscì neppure a giudicarne l’ età.
Sul suo stesso sedile, dalla parte del corridoio, stava una signora di mezza età, per usare un eufemismo, ed alquanto in soprappeso, per usare un altro eufemismo. Aveva una permanente vaporosa ed un foulard di seta attorno al collo. Sembrava un personaggio d’ altri tempi, del tutto fuori posto in quello scompartimento ferroviario come un ippopotamo in abito da sera. Lorenzo ne percepì il respiro pesante ed un po’ansimante. Quando lo salutò, lo fece con la voce roca di una fumatrice accanita.
Facendosi largo fra le gambe dei passeggeri, Lorenzo depositò il pesante zaino di tela militare sulla reticella e si accomodò con un sospiro rassegnato.
 
S’ era quasi assopito, quando la porta scorrevole dello scompartimento s’ aprì e la ragazza s’ affacciò.
Non particolarmente vistosa, di media statura, snella, coi capelli lisci di un colore biondo rossiccio, la carnagione chiara e niente  trucco, era vestita semplicemente con un paio di jeans ed una felpa scura. Una ragazza come tante, ma tutto sommato attraente.
La ragazza si fermò incerta sulla soglia dello scompartimento, si guardò in giro poi fissò Lorenzo come se cercasse una conferma.
“It’s here, sixtyone B?”. L’ accento era americano, senza dubbio.
Lorenzo alzò lo sguardo ed incrociò quello di lei. Lui era probabilmente l’ unico nello scompartimento a masticare un po’ di inglese.
“It’ right here” disse, indicando il posto accanto al suo. Proprio accanto a me, pensò.
“Oh, thanks” rispose la ragazza, ed entrò nello scompartimento.. Nella luce incerta dello scompartimento il viso di lei gli parve più bello di come l’ aveva inizialmente giudicato, gli occhi parevano di un colore blu intenso, brillante. Decisamente attraente, pensò Lorenzo.
Il colore scuro delle labbra e degli occhi risaltavano curiosamente contro la pelle chiarissima, dello stesso biancore della luna piena incorniciata dal finestrino. Gli occhi, soprattutto.
Nel fissarli, Lorenzo aveva provato una specie di inquietudine. Era certo di non avere mai visto occhi di un colore così profondo, benché nella semioscurità del vagone non fosse possibile stabilire con assoluta certezza la tonalità, blu, indaco, o persino verde smeraldo. Lorenzo desiderò che la ragazza lo guardasse di nuovo, ma lei gli dava le spalle adesso, impegnata a sistemare i bagagli sulla reticella, una borsa nera come quella dei medici ed una piccola tanica di plastica vuota, chissà che se ne faceva. Stava armeggiando, con le braccia alzate, e la felpa, sollevandosi, scopriva una sottile striscia di pelle dei fianchi, bianca e liscia. Lorenzo provò una fitta di desiderio che subito represse.
 
Lei si sedette di fianco e gli porse la mano.
“Dana”, disse, o qualcosa di simile, poteva anche essere “Donna” detto con la pronuncia aperta tipica degli americani, ma lui non chiese spiegazioni. “Lorenzo”, rispose, sentì la mano di lei curiosamente fredda mentre la stringeva. “Where are you from, Dana ? ”.
“Boston, Massachussets”.
“Are you cold ?” aggiunse lui quasi sperando di avviare una conversazione.
“A little bit” rispose lei sorridendo, e si rannicchiò sul sedile. Sembrò addormentarsi all’ istante, mentre il treno si allontanava dalla stazione immergendosi nel paesaggio notturno.
 
Lorenzo tentò a sua volta di addormentarsi, senza riuscirci. Si sentiva vagamente a disagio, continuava a rigirare nella mente le immagini intraviste di quegli occhi profondi e cristallini, continuava a rivivere il senso di vertigine che per un attimo aveva provato. Alla luce della luna il viso di lei appariva chiaro ed affascinante.
I sobbalzi del treno la facevano scivolare sul sedile rivestito di similpelle, un paio di volte parve svegliarsi, cercando di trovare una posizione più stabile, la volta successiva se la trovò praticamente addosso.
“Oh, so sorry” mormorò lei, scostandosi subito. Lui voleva che restasse lì.
“Don’t be silly” le mormorò in un orecchio e fece in modo che la testa di lei poggiasse meglio contro la sua spalla. Lei non si oppose, e riprese subito sonno.
 
Lorenzo sentiva il corpo di lei premere contro il suo fianco, la testa nell’ incavo della spalla, i capelli biondi gli carezzavano la guancia. Odorava di bosco dopo la pioggia, un odore fresco e buono di cose antiche, un odore da inizio del mondo. Lei non si mosse più, e dopo un po’ anche Lorenzo si addormentò profondamente.
 
Non seppe dire quanto tempo era passato quando si trovò sveglio di nuovo. Il treno continuava a correre e lo scompartimento era illuminato praticamente soltanto dalla luce lattiginosa della luna. Dal finestrino si vedeva una scogliera, il treno costeggiava il mare, Lorenzo vedeva le creste delle onde rompersi e scintillare come schegge di vetro nell’ aria, prima di ricadere sulle rocce scure, tutto il mare sembrava vibrare di riflessi metallici e freddi.
Si guardò intorno, lo scompartimento s’ era svuotato, erano rimasti solo lui e Dana, il cui corpo sentiva sempre premere contro il suo fianco, più caldo e morbido adesso. Si girò verso di lei.
Era sveglia, e lo stava fissando, e di nuovo Lorenzo provò quel senso di incomprensibile vertigine. Lei rimase immobile senza dire niente, sembrava in attesa.
Come in una scena al rallentatore, Lorenzo si avvicinò al suo viso, poggiò le labbra sulle sue, sentì la bocca di lei schiudersi ed il corpo stringersi contro il suo. Quel bacio fu uno sprofondare, poi la vertigine si tramutò in una sorta di assenza di peso, sentì il respiro di lei farsi più profondo. Lanciò uno sguardo intorno, quasi a sincerarsi che fossero rimasti davvero soli, poi tornò a guardare il viso di Dana, la luce della luna si rifletteva sulla sua pelle e dentro i suoi occhi, sembrava una creatura aliena scesa a stregare il mondo, Dana o Donna che fosse, soprattutto Donna adesso, si disse. La baciò ancora, a lungo, con dolcezza, lei si girò e lo abbracciò, lui le cinse la vita, poi con le mani risalì sotto la felpa, sentì la pelle nuda di lei, liscia e morbida, carezzò la curva decisa dei fianchi, poi sentì i piccoli seni duri sotto le sue dita. Lei gemette debolmente, poi anche le mani di lei si mossero, le sentì farsi strada sotto la camicia, poi scivolare in basso verso la cintura dei pantaloni.
La luna piena illuminava lo scompartimento, nonostante le tendine abbassate qualcuno poteva vederli passando nel corridoio. Lorenzo le prese la mano cercando la forza per fermarla.
“We can’t do it here”, sussurrò. Non qui.
Lo sguardo di lei sembrò incupirsi, gli occhi si fecero più scuri e profondi.
“You are mine”, gli parve che sussurrasse, mentre si portava lentamente le mani verso i jeans, dietro, come se volesse sfilarseli lì, ora.
 
Lorenzo non scese alla sua stazione, né a quelle successive, e non si presentò in caserma la mattina dopo. Al capolinea di Roma Termini lo trovò il personale delle pulizie, sul sedile d’ angolo coi i piedi in alto e la testa che penzolava, i capelli a sfiorare il pavimento. La gola mostrava un taglio profondo sul lato destro, giugulare e carotide entrambe recise, un taglio netto, come fatto da un bisturi o da un piccolo rasoio. Il corpo non presentava altri segni di violenza, non c’ erano quasi tracce di sangue nello scompartimento, ed anche il cadavere sembrava praticamente dissanguato.
 
La polizia rintracciò i compagni di viaggio e li interrogò, la famiglia napoletana e la signora di mezza età erano scesi insieme a Napoli Centrale. Tutti confermarono che il soldato dormiva profondamente e che non s’ era svegliato, quando loro erano scesi.

Era rimasto a dormire, nello scompartimento, da solo.