Il bosco s’è desto

A dispetto del tempo, oggi ostinatamente nuvolo e monocromo, il bosco sembra ormai deciso a cambiare abbigliamento. Moltitudini di primule e di viole non temono di sfidare, quasi provocare, con sapienti e colorati sberleffi il grigio malmostoso di questo cielo che incombe, quaresimale, penitenziale, punitivo.

Il giallo sfacciato è orgogliosa rinascita, non c’è dubbio, l’azzurro violaceo guarda invece più lontano, oltremare, che uno si domanda che ne saprà una viola, di cos’è l’oltremare. Non importa, sono qui entrambi, ed insieme provano a negare i colori caldi delle foglie secche tra cui si fanno spazio. Sgomitano tra loro pure i bianchi ed orgogliosi bucaneve, quasi sorpresi di non aver trovato niente da bucare.

Si preparano, lo senti che si preparano, per l’ arrivo ormai prossimo del mese più crudele, quello senza misericordia nel far nascere lillà dalla terra morta, nel mischiare ricordo e desiderio, nel ridar vita a disseccate radici con la pioggia di primavera, come dice il poeta. Quasi a ricordarci che com’ è la stirpe delle foglie, così è anche quella degli uomini, che le foglie, alcune il vento ne versa a terra, altre il bosco in rigoglio ne genera, quando giunge la stagione della primavera: così una stirpe di uomini nasce, un’altra s’estingue, come diceva molto tempo prima un altro poeta. Ma a me non importa, stare al caldo d’ inverno non è il mio forte, e dunque ricominci presto a scorrere, l’ acqua di primavera, e smuova pure ricordi e desideri.

Bravi del resto i poeti a vantare similitudini analogie e metafore, bravi davvero, ma chi di loro si sente in grado di descrivere questo odore, l’ odore particolare del bosco in una umida mattina di inizio primavera ?

L’ elleboro si guarda intorno un po’ perplesso, è stata la primadonna nei mesi di pieno inverno, pressoché senza rivali, e adesso sembra percepire che è tempo di lasciare la scena, quasi che il bosco non abbia più bisogno di lui. È dura da digerire, si capisce, e lui, l’elleboro, c’è rimasto male ed ha la faccia un poco smarrita dell’attore sul viale del tramonto. Chissà se gli hanno spiegato che qui nel bosco il tempo è circolare, mica quella fesseria a forma di freccia che si sono inventati gli umani, per forza che poi gli viene l’ansia. Chissà se immagina che la sua stagione tornerà, ancora e ancora e ancora. L’agrifoglio invece no, lui non ci pensa, sembra essersi rassegnato senza problemi, tanto  è sempreverde e che volete che gli freghi, ad un sempreverde, del tempo circolare e delle stagioni ?

Più in alto ancora c’è la neve, ed attutisce il mondo intero, colori, odori e rumori si attenuano fin quasi a scomparire, ma si capisce che è solo un trattenere il respiro prima che inizi il nuovo spettacolo.

Sì, nel bosco certe volte si ha la sensazione che la natura in fondo non possa che fregarsene di noi sciagurati umani, e se ne vada  più o meno per la sua strada, chi c’è, c’è.

E a volte mi trovo a sperare che sia davvero così.

Il suono del silenzio – Reloaded

erna 17-11-13

“Hello darkness, my old friend, I’ ve come to talk with you again”

Così cantavano Simon & Garfunkel un’ era geologica fa, quando i dinosauri si credevano giovani e lo sticker orgogliosamente proclamava “Underground Music !”. Figuriamoci, buona per fare il remake di “Cocoon”, quella “underground music” oggi.  Ma la radio stamattina la passa e dunque sorvoliamo.

“I’ ve come to talk with you again” mi piacerebbe dirlo oggi a questa testarda e paziente montagna, così vicina, così accessibile, nemmeno tanto alta, quasi banale, quella che normalmente sarebbe solo una camminata di due ore ma per vari motivi invece è un ritorno.

“I’ ve come to talk with you again” perché salire è sempre un parlare, anche se sei da solo, e spesso da soli anche di più, perché parlare non è necessariamente pronunciare parole a voce alta, quello serve soprattutto quando non ci si capisce, e non è questo il caso. E neppure “darkness” è tanto il caso, anzi, è tutto il contrario, qui oggi la luce è nitida e trasparente come certe giornate novembrine sanno regalare a sorpresa, e sarà merito di San Martino o dell’ estate indiana, in fondo non importa.

ciclaminiÈ tutto luce, qui oggi, ombre e chiaroscuri ed improvvisi scoppi di colore, vuoi un agrifoglio prenatalizio oppure un ciclamino nascosto negli anfratti umidi ed ombrosi vicino a una sorgente. È tutto tranne che buio, il buio è rimasto a valle, nel cuore della notte o nella notte del cuore, quella a cui tento di porre un precario rimedio.

“Silence like a cancer grows” . Laggiù, forse, nel buio della note e del cuore da cui provengo. Li’, forse il silenzio cresce come un cancro, o un cancro cresce nel silenzio. Qui no. Qui il silenzio non è malattia, niente affatto, qui il silenzio semmai è cura. E non è nemmeno silenzio, a volerla dire tutta, perché se ti fermi ad ascoltare senti l’ acqua che scorre, l’ aria che si muove, le foglie che si agitano, piccole creature che zampettano o sfrecciano. Lo star bene non è mai un vero silenzio.

No one dares / disturb the sound of silence”. Nessuno osa disturbare il silenzio, chi arriva, parla poco oppure tace e ascolta, qui. È un silenzio luminoso contro il silenzio buio e cattivo della notte, degli uomini, il silenzio di una natura che è e che sarà, al di là del bene e del male perché, semplicemente, prima del bene e del male, e di ogni concetto. Inconsapevole, senza passato e futuro che non siano il ritmo ciclico delle stagioni. Natura che è, e tanto gli basta, e per una volta vorrei che bastasse anche a me, seduto al sole gentile di questa stagione, vorrei che mi bastasse questo essere inconsapevole, prima dei concetti, come un elisir salvifico.

Da quassù, la città è possibile vederla, volendo, e persino, a concentrarsi, ascoltarne l’ eco lontanissima. È il luogo del buio, da qui lo capisci bene, della notte e del desiderio. La natura è eterno presente, invece, e così anche eterno passato ed eterno futuro, sì, futuro, l’ etimologia non mente e “natura” viene dal participio futuro di “nascere”, è promessa di generazione a dispetto di tutto, per quanto infestanti e devastanti noi uomini non riusciremo a togliere il futuro dal participio, ma semmai a togliere noi da quel futuro participio, rendendo l’ ambiente inadatto a sostenerci. Lei, la natura sopravvivrà persino alla nostra follia, statene pur certi.

Ma noi  non ci saremo”.

Questa però è un’ altra canzone.

Un po’ di bianco trascendente

Passo Manina

Il sudore, ci vuole. È la fatica, la misura del valore di tutte le cose, la manifestazione oggettiva del nostro tenerci. Ci vuole il sacrificio, che è poi ciò che serve a “rendere sacro” qualcosa. Attraverso il sacrificio si arriva a ciò che è sacro, e che va trattato con rispetto, il sacro ci mette un attimo a diventare esecrabile, l’ etimologia non tradisce mai. Fatica, cura, dedizione, passione, sacrificio, parole che si compongono assieme.

Questo penso, mentre avanzo piano, un passo alla volta, il piè fermo sempre il più basso.

La valle è in ombra, il freddo intenso, ma il maglione di pile e la giacca a vento fanno un buon lavoro, e la fatica ci mette il resto. Il sudore mi cola dalla fronte, insomma, mentre avanzo a fatica su per la salita. Il bosco di conifere è fitto, persino la luce fatica a filtrare, in questo sottobosco umido e ricoperto di aghi non cresce praticamente nulla, neppure gli alberi stessi riescono a rinnovarsi. Il taglio del bosco è utile al bosco stesso, questa è una cosa che un cittadino, sia pure cresciuto a pane ed ecologia, difficilmente riesce a comprendere.

Freddo, ombra e fatica, dunque. E silenzio, naturalmente, perché le valli in ombra sono le meno frequentate, e qui non ci viene proprio nessuno. Ma la montagna quasi mai delude, ed ecco che dopo un ultimo e faticoso strappo il bosco si apre, o fu aperto dai taglialegna molto tempo fa e mi trovo in una radura dolcemente ondulata.

Al centro della radura, una piccola baita di legno, chiusa ed evidentemente disabitata. Sopra ed intorno, la neve ha coperto tutto assecondando con morbidezza le curve del terreno, nascondendo le asperità rocciose, quasi come se fosse stata la montagna stessa a volersi addolcire, in un incongruo moto di empatia.

Sulla neve, nessuna traccia, solo neve primitiva, ignara, persino rozza nella sua ingenua innocenza. Né uomini né animali hanno violato questa bianchezza su cui solo adesso, proprio adesso, il sole arriva a battere.

Le gocce di sudore salato raggiungono le palpebre, entrano negli occhi, costringono a strizzarli, bruciano, il sudore genera lacrime, sembra quasi una metafora, e mentre mi sforzo per mantenere lo sguardo limpido, i raggi del sole sembrano superare le esitazioni iniziali, e trionfalmente inondano la radura innevata, scovano ad uno ad uno i milioni di cristalli di ghiaccio e ad uno ad uno li fanno scintillare come diamanti, o come milioni di microscopiche stelle adagiate sulla neve. Uno sfarfallio, un caleidoscopio di luci, un accendersi e spegnersi fulmineo di minuscoli abbaglianti puntini luminosi, rendono la radura uno scenario magico ed irreale.

La bellezza toglie il fiato, sospende il respiro, e proprio questo è il senso della parola “estetica” questa bellezza pura ed assoluta, bellezza che è il punto di contatto fra l’ umano e il divino. Per incontrare il divino, bisogna venire dove gli dei dimorano, e bisogna arrivarci attraverso un percorso, parlare di pellegrinaggio può sembrare blasfemo, ma insomma serve il sudore e la purificazione, la rigenerazione attravesrso la traspirazione, che allontana le tossine, ma anche rabbie e risentimenti, miserie e gelosie. Tutto resta a fondo valle, la salita è come la muta di un serpente, e forse proprio per questo qui, proprio qui, davanti ai miei occhi, la trascendenza si manifesta.

Gli Elfi del bosco gelato

Foto0063

Non c’è niente di più vero del bosco gelato nel cuore dell’ inverno. Il freddo intenso impedisce alle cose di mostrarsi diverse da come sono, non avanzano energie da sprecare in dissimulazioni e travestimenti, tutto è esattamente come è, a partire dagli alberi senza il velo del fogliame. La neve ghiacciata si spezza sotto la pressione degli scarponi con un crepitio da patatine, mentre la vita del bosco intorno sembra trattenuta, anch’ essa, nel minimo sforzo vitale. Eppure, qualcosa si avverte, una cincia sfreccia tra i rami e tracce, molte tracce dimostrano che il bosco è abitato.

E’ come se ci fossero due popolazioni sovrapposte e parallele, qui, destinate a non incontrarsi facilmente. Adesso ci siamo noi, goffi bipedi alla luce del giorno, infagottati in materiali più o meno tecnici e protettivi, traspiranti ed idrorepellenti, quasi fossimo palombari, oppure  astronauti alieni. Ci siamo noi, e non ci sono loro.

Loro, i veri e legittimi abitatori del bosco, quelli che non hanno scarponi né giacche a vento, quelli che non si cambiano mai, quelli senza zaino e senza pranzo al sacco, quelli che se non trovano da mangiare muoiono.

Cervi e caprioli, le tracce sono diverse per chi le sa distinguere, e fra i caprioli c’è anche qualche piccolo, perché la vita non si ferma certo per un inverno, che non è neppure dei peggiori, poi. Alberi scortecciati mostrano che la fame non dorme e qualche volta morde, ed i  morsi della fame sono diventati morsi veri, al legno dov’è più tenero, che almeno dia la sensazione della pancia piena. Mors tua vita mea, questa e non altro è la legge di natura, e chiunque pensi il contrario non sa, o non vuol vedere.

Altre tracce  incrociano le prime, creature più piccole e cattive, si intuisce, e non meno affamate. Una volpe rossa, probabilmente, e qualche martora, o faina. Sarebbe un vero regalo per loro se uno di quei piccoli caprioli precipitasse da una cengia, un cenone da leccarsi i baffi fino all’ alba. Ma non sempre è festa, e bisogna accontentarsi di quello che c’è, qualche uccello incauto, un rospo, una salamandra, un serpentello dalla vista corta.

Più in alto, dove il bosco finisce e la montagna si fa più cattiva, lassù ci sono i camosci e le pernici bianche, più in basso ed a portata di fameliche zanne ci sono i galli cedroni ed i forcelli, ma loro lo sanno, e se ne stanno bene acquattati. Dovranno per forza esporsi più avanti, nella stagione degli amori, ma non è adesso, è all’ inizio dell’ estate quando il bosco è un po’ più generoso e la fame dei predatori, si spera, un po’ meno acuta. Mors tua vita mea è una legge che imparano tuttiin fretta, quassù.

Creature che corrono, volano, strisciano e si arrampicano sono come gli Elfi delle fiabe, escono e popolano il bosco soprattutto di notte, e quando non c’è nessuno che possa vederli, e svaniscono nel nulla non appena i goffi bipedi infagottati avanzano con quello che a loro deve sembrare un frastuono da banda di paese. Per questo tanti bipedi non credono alla loro esistenza. Ma hanno torto.

Si dovrebbe essere più umili e rispettosi, ecco tutto, arrivare quassù in punta di piedi, chiedere il permesso magari, e poi accomodarsi, diventare abitanti del bosco, anzi diventare bosco fino a scomparire, assumere il colore l’ odore il respiro del bosco, farsi dimenticare, rendersi invisibili come le creature fatate. Solo allora gli elfi, distratti o rassicurati, usciranno nuovamente dai loro nascondigli per mostrarsi ai bipedi non più estranei.

Per i quali sarà difficile tornare indietro, dopo.

Colpa di chi ?

Ciò che produce tutto questo non è più l’ uomo in quanto uomo, bensì una reazione a catena da lui provocata. Nella misura in cui oltrepassa i limiti della physis umana, essa trascende anche qualsiasi dimensione interumana di ogni possibile potere di uomini su uomini.

Carl Schmitt, Dialogo sul potere

Il l male nasce nel rapporto con la libertà, con la scelta volontaria e la responsabilità che questa possibilità di scegliere comporta.

L’ animale è solo istinto, non sceglie, fa quel che deve, e questo lo pone al riparo dalle domande sul bene e sul male. L’ animale caccia, uccide, divora, ma in tutto questo non c’è coscienza, è un seguire istinti meccanici: fame = caccia.

L’ uomo può scegliere.

Non sempre, naturalmente. Ma proprio nei casi in cui scegliere non può (ad esempio la reazione di un individuo aggredito, allo scopo di salvarsi la vita) la questione del male non si pone proprio.

Quindi il problema del male nella natura umana, senza scomodare divinità o demoni, si riduce alla scelta del male, il nuocere deliberatamente quando si avrebbe la possibilità di scegliere diversamente. Il male intenzionale e volontario.

Il male gratuito è solo umano perché solo umana è la scelta di esercitarlo oppure no. Ed il male è tanto più umano quanto più è estremo, perché proprio nella mancanza di ragionevolezza, di misura, di motivazione, di giustificazione, proprio in questo manifesta la sua origine arbitraria, cioè letteralmente radicata nel libero arbitrio.

Al pari della bontà senza compromessi e della generosità senza tornaconto, si capisce.

Benché a tutti capiti ogni tanto di agire in funzione di capricci passeggeri, almeno le decisioni importanti si tende a prenderle a ragion veduta, cioè dopo aver analizzato le ragioni a favore e contro.

Qui la faccenda si complica.

Perché spesso le ragioni ci sono sia a favore che contro ed allora la questione è quella di selezionarle in un certo ordine, di attribuire maggiore o minore peso a ciascuna, e l’ uomo ha un’ abilità veramente suprema nel trovare giustificazioni razionali al suo comportamento.

Prendiamo ad esempio l’ ubbidire all’ autorità. Chi potrebbe biasimarmi se compio un’ azione in funzione di un ordine ricevuto da un genitore, o da un superiore, o da un datore di lavoro, o da un cliente, o da un’ autorità comunque legittimata a dare disposizioni ? La disciplina, la lealtà non sono forse valori ?

L’ operaio:

–          se il mio caposquadra mi ordina di tagliare un albero io lo taglio, no ? chiedete a lui.

Il caposquadra:

–          se l’ ingegnere mi ordina di spianare questo tratto io devo far abbattere gli alberi, no ? chiedete a lui.

L’ ingegnere:

–          se il mio capo mi ordina di costruire la strada io devo far spianare, no ? chiedete a lui.

Il capo:

–          se il mio padrone prende l’ appalto per fare la strada io poi devo farla fare, no ? chiedete a lui.

Il padrone:

–          se l’ Amministrazione Pubblica bandisce un concorso io partecipo, no ? chiedete a loro.

L’ Amministrazione:

–          se il Governo decide di fare nuove infrastrutture io devo farle fare, no ? chiedete a loro.

Il Governo:

–          per lo sviluppo ed il benessere del Paese sono necessarie nuove infrastrutture. Il popolo ci ha votato per questo., no ? chiedete a loro.

Già.

Che c’è di male ?

O meglio, dov’è che il male si infila dentro, in questo rosario di scaricabarili in cui sempre sembra di tornare al punto di partenza ? Chi ha la responsabilità di aver tagliato l’ albero, alla fine ? Chi ha la responsabilità della distruzione delle foreste ?

Perché si cerca petrolio nell’ Artico o in fondo al mare ? Per una passione devastatrice o perché noi, proprio tutti noi, abbiamo uno stile di vita che lo pretende ?

Chi ha la responsabilità dell’ effetto serra ? Della scomparsa dell’ ozono ? Del riscaldamento globale ?

Nessuno o tutti.

Forse è l’ idea di responsabilità a metterci fuori strada, forse è un’ idea troppo ristretta per rendere conto di quello che cerchiamo di dire.

Gli antichi avevano un’ idea più ampia di queste cose, un’ idea che si è mantenuta nella giurisprudenza e forse solo lì, l’ idea che si possa essere colpevoli senza essere responsabili. Colpevoli, a volte consapevoli, pur senza intenzione, credendo di far bene, non volendo nuocere, a volte stretti in un’ alternativa del diavolo.

La tragedia classica ne è piena, del senso della colpa.

Consideriamo Oreste, preso fra la necessità, il dovere di vendicare l’ omicidio del padre, ed il vincolo di sangue nei confronti della madre assassina. Oreste decide di uccidere la madre, è vero, perché così vuole la consuetudine, ma subito dopo è costretto alla fuga, inseguito dalle Erinni. Ha versato il sangue della madre, è colpevole, ed il fatto di essere stato costretto a farlo da un altro dovere non eludibile non fa venir meno la sua colpa. La vita è tragica, e certe volte non si può vincere.

Consideriamo Amleto, anche lui deve vendicare il padre, uccidendo gli assassini, che sono sua madre e lo zio. La situazione è assai simile a quella di Oreste, ma Amleto è un personaggio moderno, il peso della responsabilità gli piomba addosso prima ancora che levi la mano per compiere il suo delitto riparatore. Vacilla, esita, perde il senno, o forse no. Cerca disperatamente un pretesto, un motivo per venirne fuori innocente, per non macchiarsi dei delitti, per sfuggire al destino. Ma il modo non c’è. Si dovrà sporcare le mani, rendersi colpevole, non c’è via di scampo. Si è colpevoli, persino quando è il destino a barare.

Consideriamo Edipo, infine, neonato abbandonato dal padre, ritorna a Tebe da adulto e lo uccide, senza riconoscerlo, per un banale diverbio, poi sposa la madre, senza sospettare che sia la propria madre, e con lei genera figli. Come può essere responsabile di ciò che non sa ? Beh, responsabile forse no, ma colpevole sì, colpevole di fronte a se stesso, e per non vedere più se stesso Edipo si acceca, fugge alla ricerca di un’ impossibile redenzione. Impossibile perché non c’è redenzione nel mondo tragico, e la colpa, quale che sia, ricade persino sui figli dell’ unione incestuosa, Eteocle e Polinice si uccideranno a vicenda.

La colpa è predisposizione, occasione di danno, non atto d’ intenzione, ma semmai difetto di attenzione, omessa vigilanza, incauta attitudine, mancata prevenzione, semplice disdetta. La colpa è destino, ed in qualche misura è anche predestinazione o fato. Esclude l’ intento, ma non ripara dalle conseguenze.

Siamo colpevoli anche oggi, tutti e ciascuno. Colpevoli di vivere in un mondo sovraffollato dove la specie umana ha assunto un carattere infestante. Colpevoli di consumare il mondo, ognuno per la sua parte, lasciando un po’ di meno a chi verrà dopo. Colpevoli di sopravvivere, dove la sopravvivenza è un lusso o privilegio non a tutti concesso. Colpevoli di essere nati dalla parte giusta del mondo, per di più, senza averne merito o ruolo. E per questo, doppiamente ingiusti verso chi è nato dalla parte sbagliata. Non si è responsabili di essere nati in un posto invece che in un altro, d’ accordo, ma del destino occorre farsi carico.

La redenzione passa attraverso la responsabilità, chi più ha più risponde, il destino è un carico sulle spalle, un bagaglio da portare con se, una forzatura da assecondare. La colpa va riscattata, il destino va redento, vale a dire, letteralmente “ricomprato”, proprio come uno schiavo ricompra la sua libertà diventando liberto.

Sarà il senso della colpa a salvare il mondo ?

Vedendo e disvedendo


Il tempo cambia il rapporto col mondo e con le cose, rende lo sguardo più attento ed al tempo stesso più distratto, paradosso solo apparente, questo.

Ho attraversato mille volte le Alpi in aereo, mille volte ho poggiato lo sguardo su questo mondo di barbara bellezza, questo grigio di rocce dai bordi affilati e taglienti come selci paleolitiche che si alterna ad un bianco stupore al di là del bene e del male. Troppo grande per la natura umana, intuisci che potrebbe ucciderti senza cattiveria, distrattamente, senza accorgersi. Mille volte ho visto accendersi e spegnersi spilli di luce mutevoli, all’ avanzare apparentemente lentissimo dell’ aereo rispetto alla terra. Mille volte.

Ma quello sguardo si è fatto diverso e più profondo adesso, io credo, nel tentativo di trattenere l’ immagine con la più alta definizione possibile, archiviarla in una memoria affidabile ed incorruttibile, da cui poterla in futuro recuperare, intatta, a piacimento.

L’ idea che non mancheranno altre occasioni per rivedere ancora e meglio vacilla nella coscienza che sì, di occasioni ce ne saranno, ma il futuro non è sconfinato, e conviene immagazzinare, scolpire, incidere dentro di sé steli a futura memoria.

È uno sguardo più compassionevole e, esito a dirlo nel timore del ridicolo, amorevole, quello che adesso poggio su immagini straordinarie divenute familiari. Amore sì, per ciò che ho avuto il privilegio di vedere, e che ancora vedrò, ma non per sempre. E al tempo stesso, questo sguardo amorevole è sempre più consapevole del “non per sempre” che lo accompagna e dunque della dolorosa necessità di mantenere un distacco fra l’ occhio e la cosa veduta, un distacco che nutre il presagio dell’ inesorabile separazione a venire.

Tutto si fa più vicino nella “pietas” dello sguardo adulto, ed insieme si fa più lontano nella consapevole rivelazione dell’ impermanenza di quello stesso sguardo e nel presagio della perdita.

Natura morta con paesaggio


L’ ambiente è ciò che gira intorno.

La parola “ambiente” ha la radice “ambi” che vuol dire “di qua e di là”, come in “ambivalente”, “ambiguo”, “ambidestro”. L’ ambiente dunque sta “di qua e di là”, “tutto intorno a te” come una vecchia pubblicità che avrei preferito non avere così tanto  intorno a me, nonostante Megan Gale.

Che cosa c’è, tutto intorno a noi ?

C’è l’ aria, anzitutto, quella che respiriamo, poi c’è quello che sentiamo, suoni o rumori a seconda dei casi, ci sono gli odori, buoni e cattivi, e poi c’è il panorama, cioè “pan-orao”, vedo tutto. Ciò che si respira, si sente, si odora, si percepisce, e ciò che si vede intorno, quello è l’ ambiente.

Ora, ciò che si osserva quando ci si trova in una posizione favorevole, con una vista aperta non impedita da ostacoli, è il paesaggio, e paesaggio è un’ altra parola che ha parecchie cose da dire. “Paesaggio” infatti viene dal latino “pagus ager”, dove “ager” è ovviamente la campagna, mentre “pagus” deriva a sua volta dal termine greco “pagos”, che indicava il luogo elevato su cui si insedia la comunità. L’ Areopago di Atene, sede del primo tribunale della storia, è letteralmente, la “collina di Ares”. Pagus è per estensione il paese, che sta in alto, e paesaggio è la campagna, il territorio attorno al paese.

Ma c’ è un altro termine deriva da “pagus”, ed è “pagano”. Pagano è letteralmente l’ abitante del villaggio, il “non-cittadino”. E pagano è colui che si ostina, di fronte al Cristianesimo che si afferma, a credere ancora negli dei, fino all’ ultimo. Era un termine dispregiativo, per i primi cristiani. Villici. Buzzurri. Pagani.

Va bene, d’ accordo, la campagna è arretrata per antonomasia, lì tutto arriva in ritardo, si capisce, le novità vengono sempre dalla metropoli. Però io ci trovo una forma di bellezza, in questa condizione. Mi spiego.

Gli dei dell’ antichità classica erano “tutto intorno a noi”, vivevano nella natura quando non addirittura, come Pan, erano la natura.

Dice Hillman:

Le potenze appaiono in luoghi specifici: sotto un albero, presso una sorgente, un pozzo, su una montagna, in un pianoro, all’ ingresso della tana di un serpente, o in linea con il sole, la luna e le stelle. Gli uomini segnano questi luoghi speciali con altari, fossati, pietre disposte in cerchio”.

(L’ anima dei luoghi, Rizzoli 2004, p. 22)

 Il problema del pagano era che poteva pure avere una divinità preferita, a cui rivolgersi per avere favori e protezione, però non poteva trascurare le altre, perché le divinità dell’ Olimpo erano assai invidiose le une delle altre, si compiacevano dei sacrifici dei mortali e si vendicavano con ferocia da psicopatici su chi li trascurava o recava loro offesa. E dunque il povero pagano campagnolo, devoto (mettiamo) di Ares, doveva comunque un minimo blandire anche Zeus, Era, Apollo, Atena, Artemide, Afrodite, Dioniso, Pan e chi più ne ha più ne metta per evitare grossi guai. E doveva altresì rispettare tutti i luoghi in cui queste divinità dimoravano o avrebbero potuto dimorare (non si sa mai).

Cioè doveva rispettare tutti i luoghi belli.

Se gli dei sono tutto intorno a noi, nei monti, nelle foreste, nelle sorgenti, ebbene è necessario rispettare tutto ciò che d bello esiste intorno a noi. È una questione non solo estetica, ma morale. Rispettare l’ ambiente diventa una questione religiosa, anzi diventa LA questione religiosa per eccellenza. Un misto di devozione e timore reverenziale.

Per noi, ovviamente non è così, non è più così da molto tempo, per noi solo l’ uomo è dotato di anima, non gli animali e meno che meno i luoghi.

La natura è oggetto di dominio, “res nullius”, cosa di nessuno a disposizione di chi la prende, l’ aria, l’ acqua sono libere, gratuite ed inesauribili. Le risorse naturali sono a disposizione senza alcun riguardo, sono mezzi di produzione. Come dice Heidegger, per l’ uomo moderno “la foresta è legname, la montagna è cava di pietra, il vento è vento in poppa”. Il mondo è “utilizzabile”.

Per certi versi la cosa si può capire. Mai nella storia abbiamo avuto il dubbio che il mondo potesse esaurirsi. Finire sì, nella collera divina, travolto dai cavalieri dell’ Apocalisse, finanche nella guerra termonucleare globale, ma esaurirsi no. Madre Natura che non allatta più, come una tata con le mammelle avvizzite ? Impensabile.

Ed invece, è proprio l’ impensabile che oggi tocca pensare, che il mondo possa finire per consunsione, per logoramento, per esaurimento. Per sfinimento.

Lo “sterminio dei campi” di cui parlava Andrea Zanzotto fa parte di questa usura. Ogni volta che un ettaro di campi viene edificato, quei campi sono perduti per sempre e non torneranno mai più ad essere campi.

Pochi numeri bastano a dare l’ immagine di questo sterminio, questi e molti altri sono reperibili nel libro di Salvatore Settis “Paesaggio, Costituzione, Cemento” (Einaudi). Dagli anni ’50 ad oggi la superficie urbanizzata in Italia è cresciuta del 500%, ogni giorno vengono cementificati 161 ettari di terreno, in massima parte terreni fertili di pianura, per costruire 33 vani per ciascun nuovo nato, quasi che dovessimo arrivare a mezzo miliardo di abitanti. Il 17% del territorio è degradato, solo tra il 1990 ed il 2005 si sono persi complessivamente 3,7 milioni di ettari, pari alla superficie totale di Lazio ed Abruzzo messi insieme. Vero è che di regioni ne abbiamo 20, ma forse è il caso di darsi una regolata.

Se il rapporto classico con il paesaggio era al tempo stesso estetico e morale, lo sterminio del paesaggio non può che avere conseguenza sia estetiche che morali. Le due cose procedono insieme.

Non si può attraversare una qualsiasi periferia urbana tra palazzoni fatiscenti e squallidi capannoni industriali senza sentire un’ angoscia opprimente, un desiderio di allontanarsi, andare via, quasi un istinto di conservazione che ci spinge a fuggire via da ciò che ci appare malsano, mortifero, corrotto, putrido. La sensazione che rimanendo lì finiremo con l’ ammalarci. L’ esatto opposto della risposta istintiva del “pagano” che osservando un luogo speciale per qualità e bellezza, ne attribuisce l’ origine al fatto di essere, quel luogo, dimora di un dio o di una ninfa.

“Si diventa pagani (…) perché ci si accorge che tutto è vivo”

J. Hillman, ibid., p104.

Nel momento in cui il mondo si consuma, ci si può salvare solo recuperando, in forma meno ingenua e “magica” proprio questa forma di rispetto.

Il mondo non può più essere “res nullius”, deve tornare ad essere proprietà, se non degli dei, almeno degli uomini, tutti gli uomini, deve diventare “res omnium” ovvero, in termini moderni, bene comune.

Regolato, disciplinato, e soprattutto tutelato come bene comune, prima che scompaia per tutti, e per sempre.

Vulnerabile viandante


Vulnerabile, ecco come sto.

Ed anche leggermente stranito da questa improvvisa consapevolezza di vulnerabilità.

Ma cominciamo dall’ inizio.

In macchina, una bolla ben protetta, navicella sovraterrena. Traffico intenso ma scorrevole, così si dice, colonna d’ auto a cinquanta sessanta all’ ora. Temperatura controllata al mezzo grado per il massimo conforto, poltrona comoda ed avvolgente ma non cedevole, motore che fa le fusa e gran vibrare di amadeusiani archi in morbida stereofonia circostante. Meglio che a casa, quasi.

Placido e rilassato nonostante la pioggia scrosciante e la temperatura vicina allo zero, così mi dice, ma è un’ informazione del tutto astratta, il display sul cruscotto. La coda mi evita persino di dover badare al tachimetro, qui notoriamente pullula di autovelox.

È un attimo, proprio un attimo.

La botta di una buca sull’ asfalto, che non è una buca qualsiasi, questo si capisce subito, sento la macchina scuotersi con violenza, due volte in rapida successione, prima la ruota davanti poi quella dietro. Mozart ammutolisce, l’ auto prosegue, ma tira con decisione verso destra, devo contrastare col volante. Rallento e accosto.

Ecco com’ è andata.

Freddo e bagnato, le mani intirizzite, le scarpe infangate, a guardare con rancore due gomme sgonfie ed appiattite sotto i cerchioni. Due. Davanti e dietro.

In mezzo al nulla. O meglio, non proprio nulla. Qualcosa c’è. Freddo. Buio. Pioggia. Vulnerabilità. Aperta campagna.

Sbalzato fuori dalla confortevole dipendenza dalla tecnica avanzata, svanita la bolla protettiva, faccia a faccia con il mondo, senza mezzi interposti. E solo. Pure la fila d’ auto si è dileguata.

Viaggiatore d’ altri tempi ?

Beh, non esageriamo adesso. Non è un collasso tecnologico generalizzato.

Il telefonino è quasi scarico ma c’è. Non è poco.

C’è anche il navigatore, un lusso da leccarsi i baffi. So dove mi trovo. Più o meno.

Tutto questo mi consente, senza troppi drammi, di tirarmi fuori dai guai. Un paio di telefonate, un numero verde, il carro attrezzi nel giro di mezz’ ora.

Una notte imprevista in albergo, il collasso tecnologico viene molto mitigato se hai la carta di credito nel portafogli. Il conto in banca ne soffrirà, ma meglio lui che io.

Infreddolito, bagnato, maldisposto verso il mondo intero. Ma non troppo malridotto.

Domani è un altro giorno.

Ecco perché mi trovo adesso qui, al tavolo del ristorante di questo piccolo albergo a conduzione familiare in un paesino mai sentito nominare prima. La padrona è cordiale, ma mi invita ad affrettarmi, sono quasi le nove di sera, e qui si cena presto, in effetti gli altri tavoli occupati, pochi, sono tutti più o meno a fine pasto. Facile prevedere che finirò la cena da solo nella grande sala.

Non è la cosa peggiore di oggi…

“Mi faccia mangiare bene, per favore, che sono di pessimo umore”, e racconto brevemente i tristi fatti.

Mi prende in parola, la signora, eccome.

Tagliolini fatti in casa con porcini, bresaola con finferli e grana, mezza bottiglia di ottimo Sforzato. Cena da re.

Ristabilito un metabolismo accettabile, subentra la riflessione, vizio radicato, sulla disavventura, che persino ho pudore a definire tale.

Che mi è successo di così grave dopotutto ?

Niente di lontanamente paragonabile a ciò che in un tempo remoto ma poi nemmeno tanto avrebbe potuto farmi finire male.

Viandanti d’ altri tempi, in cammino di verità (ciao Cape !), azzoppato il cavallo, appiedati nel bosco, il buio fitto, l’ ululare di lupi, il fuoco che non s’ accende, tutto è freddo e zuppo di pioggia, e solo c’è da augurarsi che il tempaccio induca i briganti a restarsene al caldo nel loro covo. Nessun aiuto a portata di mano, occorreva cavarsela da soli, a piedi fino al primo villaggio e speriamo che non sia lontano e, soprattutto, che ci sia una locanda.

Re Lear folle nella bufera.

Ecco cosa penso nel dopocena della mia locanda, stavo andando fuori dalla città per il week end,  fuori dalla città e dentro la natura, modo consueto di sfuggire alla stanchezza e ritrovare serenità. Ma un tempo non troppo lontano era proprio il contrario, era la natura il pericolo e la città o borgo o villaggio che fosse la relativa sicurezza. Che sollievo poi, ritrovarsi in città.

I viandanti d’ altri tempi dovevano avere gran buoni motivi per allontanarsi dal borgo, di certo non avrebbero considerato ragione sufficiente un po’ di stress da ufficio…

Domani non succederà nulla

I platani lungo il viale sono cresciuti, le radici ingrossandosi hanno sollevato l’ asfalto del marciapiede, spaccandolo in più punti. In quelle spaccature sono cresciuti fili d’ erba, che scavalco, erba, spaccatura e radici, nel mio jogging solitario alle prime luci di questa mattina fredda e limpida d’ inverno che non è una mattina qualunque.

Corro, mentre il primo sole sorge nel cielo di un rosa surreale, affiorando da un orizzonte di campi coltivati e cascine solitarie.

La corsa scalda, trasudo vapore come una locomotiva sfiatata, ed è quasi divertente osservare la brina formarsi sui guanti di lana che proteggono i pugni istintivamente chiusi.

Gli alberi vogliono riprendersi il marciapiede, e forse un giorno lo faranno davvero, vorrebbero tornare a fare le cose a modo loro, alberi, erba, sterpi, spazzare via quest’ ordine imposto e sovrapposto a quello naturale, cioè della natura.

Mi figuro nella mente città perdute nella foresta amazzonica, Atlantide inghiottita dagli abissi, siti archeologici dove a stento si riconosce l’ opera umana risommersa dalla vita selvatica, quella che non tollera ordine e geometrie, quella che non fa progetti. La vita che si limita a vivere, anno dopo anno, stagione dopo stagione, equinozi e solstizi ritmicamente alternati, ugualmente spaziati. Un giro alla volta, proprio come questa corsa regolare tra campi e cascine che le gambe ormai percorrono senza di me e che presto tornerà al punto di partenza, non sia mai che qualcuno debba venire a recuperarmi per strada.

Un altro giro, più o meno come tanti già fatti, un altro giro come di stagioni o come il capodanno da qui a qualche ora.

E questo pensiero però un po’ strania, perché dall’ anno nuovo non ci si aspetta che sia la ripetizione di nulla, ma che sia invece tutto nuovo, e col trascorrere degli anni si sente sempre più il peso di questa condizione esigente, quando tutto o quasi tutto pare essere stato già visto e fatto, ciò che arriva già arrivato, ogni evento già vissuto persino, forse, con più entusiasmo e passione o maestria.

Domani non succederà nulla.

Non è detto, naturalmente. Non è mai detto.

Che ce la faccia, a sorprendermi, il 2012.