La fine del mondo conosciuto?

 

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Prendo spunto dal titolo del celebre brano del R.E.M. “It’s the end of the world as we know it (and I feel fine)” per provare a capire se questa pandemia è davvero “la fine del mondo come lo conosciamo”, e soprattutto se c’è qualche motivo per “sentirsi bene”.

È probabile che la stagione estiva offrirà una pausa, un allentamento della ferocia dei contagi, i virus sono sensibili alla temperatura e la loro resistenza fuori dal corpo umano cala drasticamente col caldo. Questo dovrebbe darci respiro fino al prossimo autunno, ed è possibile che per quel tempo sia a buon punto la sperimentazione dei vaccini, o che siano stati messi a punto dei farmaci efficaci. Anche in questo caso però rimarrebbero delle incognite: nessuno sa se l’aver sviluppato anticorpi protegga realmente da un secondo contagio, nessuno sa quanto il virus muti nel corso del tempo, e quindi se il vaccino stesso possa offrire una protezione permanente o solo stagionale, come nel caso del vaccino per l’influenza, che peraltro non garantisce neppure la certezza di non ammalarsi. E dunque andrebbe messa in conto la possibilità concreta di una lunga fase davanti a noi di convivenza col virus, una fase che richiederà adattamenti profondi del nostro modo di vivere, “la fine del mondo conosciuto”, appunto.

La prospettiva della fine del mondo comporta certamente aspetti angoscianti, primo fra tutti l’accresciuta consapevolezza della propria fragilità, precarietà, mortalità. La paura del dolore e della morte ha spesso spinto l’uomo verso la superstizione, la magia, la scaramanzia. Ma può anche spingerlo verso forme estreme di chiusura, verso la xenofobia, può comportare una minaccia molto concreta, il rafforzamento di nazionalismi e populismi basati appunto su reazioni emotive, istintive.

Si tratta di rifiuto della realtà puro e semplice.

Un virus non conosce confini, e le epidemie circolavano tranquillamente sia quando il mondo era unito sotto l’impero di Roma, sia nella caotica frammentazione medievale, sia all’epoca d’oro degli Stati sovrani. Chiudere una zona rossa per evitare il diffondersi del contagio ha senso, chiudere genericamente i confini di uno Stato ne ha molto meno, come la pandemia ha appunto dimostrato.

La sensazione di angoscia viene ovviamente esaltata dalla crisi economica, la prospettiva di non guadagnare, di perdere il lavoro, di non riuscire a mantenersi si somma alla pura e semplice paura di ammalarsi, e questo può indurre ancora di più alla chiusura, all’isolamento, persino alla depressione.

Alcune difficoltà saranno oggettive, viaggiare sarà presumibilmente più complicato, difficile e costoso di prima, sia per quanto riguarda le lunghe percorrenze, sia per i trasporti urbani. Se un autobus deve limitare la sua capacità ad un quarto o meno di quella precedente, si capisce bene quanto le città dovranno riorganizzarsi, attraverso orari flessibili, ingressi scaglionati, uso estensivo del lavoro da casa, ampliamento della mobilità individuale sostenibile, che poi significa principalmente biciclette, monopattini, bike e car sharing.

Ma l’uso estensivo e permanente dello smartworking implicherà anche una riorganizzazione delle case private, con una preziosa porzione di spazio privato (per chi ne dispone) da dedicare in modo non occasionale alle funzioni di ufficio; il re-design domestico andrà insomma di pari passo col re-design urbano, nella faticosa creazione di una nuova normalità.

Ci si può anche attendere l’esplosione di un conflitto tra libertà personale salute pubblica. Questo conflitto è rimasto sotto traccia nel periodo del lock down, perché si era tutti in una condizione di paralisi da panico. Ma cosa succederà quando saranno disponibili le app di tracciamento? La gente accetterà di sottoporsi alla localizzazione?

La questione di fondo è il grado di fiducia nelle istituzioni. Sappiamo bene che moltissime app già ci tracciano, ad esempio Google, Tripadvisor, tutti i navigatori, i programmi meteo e in generale tutte quelle app a cui abbiamo consentito l’accesso alla nostra posizione (WhatsApp, Facebook, Instagram, Telepass, Stocard, ecc.). Sappiamo bene che la geolocalizzazione è uno dei tanti dati personali di cui con una certa liberalità autorizziamo l’uso a scopi commerciali, ma per qualche motivo il fatto che l’Autorità possa accedere alla nostra posizione, nonostante tutte le rassicurazioni sull’anonimato dei dati, ci preoccupa molto di più, e tanto di più quanto di meno ci fidiamo del Governo. C’è evidentemente la percezione di un rischio di controllo autoritario, che temiamo possa rimanere anche dopo la fine dell’emergenza. Paradossalmente, l’eventualità di restrizioni molto più violente della libertà, come zone rosse e lockdown locali nel caso di ritorno dell’epidemia, sembrano preoccupare di meno, proprio per il loro carattere chiaramente emergenziale e quindi più sicuramente temporaneo.

Non va dimenticato che controlli sierologici, certificati di immunità e simili rischiano di innescare deviazioni e discriminazioni assai pericolose in un momento gravissimo di crisi economica ed occupazionale, come si può intuire: ad esempio, la tentazione di favorire per l’assunzione chi possieda un “passaporto d’immunità” rispetto a chi non lo possiede sarà forte.

Nonostante tutti questi rischi potenziali, la crisi innescata da una pandemia potrebbe tuttavia presentare persino delle opportunità di sviluppo positivo, delle occasioni perché la “fine del mondo conosciuto” favorisca la nascita di un mondo almeno un po’ migliore del precedente.

  1. La prima opportunità è legata al fatto che questa pandemia rappresenta la prima sfida globale in cui l’umanità intera si trova veramente ingaggiata. Da parecchio tempo sentiamo dire che il mondo contemporaneo ha abolito le distanze, compattato l’umanità, ma di fatto quando gli interessi divergono questo mitico “fronte unitario” si sgretola come un castello di sabbia. In questo caso invece la sfida è davvero globale, collettiva, l’umanità da una parte contro il virus dall’altra; ed è la prima volta che l’umanità sembra prendere atto di un’identità comune. La comunità scientifica lavora alla ricerca di farmaci efficaci, o di un vaccino, con un’intensità che non si era mai vista, scienziati di tutti i continenti mettono in comune informazioni, risultati e teorie letteralmente a ritmo quotidiano, e questo è un fenomeno estremamente importante.
  2. La creazione di un’identità comune è il primo passo perché possano essere affrontati appunto con spirito unitario e non ciascuno secondo il proprio tornaconto particolare i problemi della sostenibilità e del cambiamento climatico, che sono in assoluto le minacce maggiori che abbiamo di fronte. Al tempo stesso, abbiamo imparato che è possibile uno stile di vita con un impatto sul pianeta decisamente inferiore rispetto al recente passato e questo, se non altro, farà cadere parecchi alibi.
  1. Un altro elemento positivo piuttosto importante è la constatazione che le grandi reti infrastrutturali hanno retto l’impatto di uno “stress test” imprevisto e violento. Questo non era affatto scontato, a cominciare da internet. Pare che l’effetto del lock down sia stato un incremento praticamente istantaneo dell’ordine del 30% del traffico in rete. Ma ha retto bene anche la rete della logistica, le merci sono arrivate al supermercato con regolarità, a parte qualche sporadico assalto alimentato dal panico. Hanno retto anche le consegne a domicilio, corrieri e riders, che forse adesso smetteranno di essere invisibili. Molti ristoranti, pizzerie negozi sono riusciti a mantenere un minimo di attività attraverso le consegne a domicilio di cibi e merci ordinabili sul loro sito web, una modalità che potrebbe rimanere anche in futuro, micro-reti locali di circolazione di merci a disposizione soprattutto delle persone più anziane. Ogni negozio che non abbia ancora provveduto farebbe probabilmente bene ad organizzarsi con un piccolo sito web ed un accordo con dei riders.
  1. Non ha retto altrettanto bene la rete sanitaria, indebolita negli anni da tagli di budget ma forse anche da qualche elemento ideologico. Il fatto stesso di trovarsi ad ammirare l’eroismo di medici ed infermieri, indica che il sistema non ha retto a sufficienza. Abbiamo scoperto di avere metà dei posti letto rispetto alla media europea, pur con una popolazione più anziana della media. È vero che l’emergenza è giunta all’improvviso, ma forse potrebbe essere una buona idea per il futuro estendere a tutte le reti gli “stress test” ideati e praticati ormai da tempo per verificare la capacità di resistenza delle banche.
  1. Più in generale c’è stato un consolidamento dell’uso di strumenti digitali ormai generale. Videoconferenze via web per un pubblico di over 70 sarebbero state impensabili solo pochi mesi prima della pandemia. Sarebbero state semplicemente rifiutate.
  1. L’uso di strumenti tecnologici avanzati fa parte di un generale sentimento più favorevole a scienza e tecnologia, gli scienziati sono tornati a parlare in televisione (fin troppo), e quando il vaccino arriverà, mi aspetto che sia generalmente bene accolto soprattutto se nel frattempo dovesse verificarsi la temuta “seconda ondata”, il ritorno del virus in autunno.
  1. Più in generale, si intravede una rivalutazione delle competenze, dopo anni di trionfo del dilettantismo. Si rivede anche lo Stato, come sempre accade quando le cose vanno male, si rivalutano la medicina di base e il sistema sanitario in generale, tutte cose di cui è invece facile dimenticarsi quando le cose vanno bene. Val la pena ricordare che i sistemi sanitari nazionali sono nati dopo la tremenda epidemia di spagnola del primo dopoguerra. Oggi ci si torna a chiedere se il diritto alle cure mediche non debba essere incluso tra i diritti fondamentali dell’uomo.
  1. C’è insomma qualche segnale di arretramento del pensiero liberista che ha dominato il mondo negli ultimi trent’anni, diciamo dalla caduta del Muro in avanti. Ed in questo arretramento comincia ad emergere la voce di chi da tempo segnala il pericoloso aumento delle diseguaglianze nei Paesi occidentali causato dalla globalizzazione, l’assottigliamento progressivo del ceto medio (quello che una volta si chiamava “borghesia”) e la polarizzazione tra un ristretto numero di ricchi sempre più ricchi ed una popolazione sempre più povera. La crisi economica prodotta dall’ epidemia non potrà che esacerbare questo stato di cose, con esiti potenzialmente destabilizzanti. È importante è che questo argomento venga messo all’ordine del giorno. Così come si riesce a controllare attraverso le certificazioni la qualità di beni e servizi, dovunque essi siano prodotti, non dovrebbe essere impossibile realizzare un sistema di controllo che certifichi anche il rispetto di livelli minimi di protezione e retribuzione del personale, dovunque si trovi la produzione.
  1. A proposito di globalizzazione, si è constatato durante l’emergenza come le filiere eccessivamente delocalizzate siano inevitabilmente fragili. Se per realizzare un prodotto si ha bisogno di componenti che arrivano da una moltitudine di Paesi, allora un problema imprevisto in uno di questi Paesi mette a rischio tutta la catena. È quello che abbiamo sperimentato, prima con il lockdown cinese, successivamente con quelli dei vari Paesi sfalsati fra di loro. Sarà necessario probabilmente predisporre catene produttive ridondanti, con gli stessi componenti che possono essere approvvigionati in Paesi diversi, oppure semplicemente più corte: produrre dove si vende, realizzare Supply Chains locali, commercio a chilometro zero o quasi, con beneficio per il pianeta.
  1. L’umanità è una nave in tempesta in questo momento, e quando una nave attraverso la tempesta è importante avere un buon capitano. Ma qui, proprio non ci siamo: la leadership dell’Occidente è stata a lungo saldamente nelle mani degli Stati Uniti, i quali però già da qualche tempo, e massimamente con la presidenza attuale, hanno palesemente rinunciato ad esercitarla. La Cina dal canto suo sembra concentrata esclusivamente sui propri interessi, mentre l’Europa è sempre stato un gigante economico ma un nano politico.

Ma in questa tempesta nessuno si salva da solo.

E forse è proprio l’Europa, quella a cui questa crisi potrebbe dare una buona volta l’impulso decisivo per decollare e prendere in mano, se non quello del mondo, almeno il proprio destino.

“You miss too much these days if you stop to think”

U2 – Until the end of the world

L’angelo di Giulio

Un nuovo racconto quasi natalizio e auguri di cuore a tutti!

HSE Tales

Io dell’incidente ricordo solo il botto.

Quando si guida su una superstrada, si va veloci, e l’ultima cosa che ci si aspetta è che un camion sbuchi da una stradina nascosta chissà dove e occupi la strada, quasi fermo, mentre tu sbuchi dalla curva. Non lo so se ho suonato, non lo so se ho sterzato, so che ho frenato forte, con la consapevolezza che mai e poi mai sarebbe bastato, mentre la fiancata del camion diventava sempre più grande e la scena rallentava come in una maligna moviola.

Poi il botto.

Il rumore, quello lo ricordo bene, un fragore orribile, l’eco mi è rimasta come un rombo basso nelle orecchie e ancora mi tormenta, soprattutto di notte. Dopo più niente, solo buio.

È curioso, svegliarsi in un ospedale con gli addobbi natalizi, sembra quasi una contraddizione in termini, c’è qualcosa di meno natalizio che trovarsi ricoverati? Poi…

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Colpa mia

HSE Tales

Immagine di K.A. Martino

Secondo l’ ISTAT, in Italia il 31,5% delle donne tra 16 e 70 anni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Ha subìto violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner il 13,6% delle donne (2 milioni 800 mila).

Nel 2018 sono state 142 le donne uccise, 119 in famiglia, e 94 nei primi dieci mesi di quest’anno. Di queste, l’80% è stata uccisa da una persona conosciuta. In particolare, nel 44% dei casi dal partner attuale o dal precedente, nel 30% dei casi da un familiare (inclusi i figli e…

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Il sacro tempio del tempo

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È vero che in fondo sono sempre le stesse idee a girarci per la testa. Il tempo, per esempio.

Una cosa così semplice, e così incomprensibile, sommamente giusta nel suo fluire per tutti senza distinzione, ed al tempo stesso sommamente, assurdamente ingiusta.

Lo vedo sgranarsi come le perle di una collana rotta, sfilarsi e perdersi in una sequenza irrecuperabile di attimi, giorni, anni. Uno sgranarsi nemmeno uniforme, corre quando lo vorresti fermo e sembra non passare mai quando invece lo vorresti vedere correre. Perle sfilate, perdute per sempre.

Viaggi ed assaggi, passaggi e messaggi, amori, furori, terrori, albe e tramonti tremanti, tra i monti, umori, sudori, dolori, durature incazzature e cure, inquietudini, latitudini, abitudini, critiche e musiche e dediche, e pratiche mimetiche, acrobatiche, fantasie erotiche, eretiche, sogni ritorni, e bisogni, non ti vergogni, palloni passioni e missioni, ed ancora riunioni, che due…

Una divinità capricciosa, il tempo, insensibile alla preghiere ed indifferente alla rabbia delle piccole creature su cui domina. Idolo irraggiungibile, insensibile, incorruttibile, per nulla simpatico. Come tutti gli dei che l’ uomo si è dato, come tutte le statue nei templi di ogni epoca. Divinità è il nome che diamo alla nostra riluttante impotenza di fronte alle cose, all’indifferenza del divenire.

Sostengono gli esperti che alla radice della parola ci sia un verbo greco, “temno”, che significa suddividere. Anni, mesi, giorni, ore, minuti. Suddivisioni, appunto.

Ma è suddivisione anche quella tra ciò che è accessibile toccabile e ciò che non lo è, ciò che è proibito ed intoccabile. Anche “tempio” ha la stessa radice, infatti, la suddivisione stavolta è fra ciò che è dell’uomo e ciò che, ancorché fatto dall’uomo, non gli appartiene perché appartiene alla capricciosa divinità che vi dimora, che pretende adorazione e sacrifici.

Il tempio è sacro, come tutto ciò che si colloca fuori dall’umano.

Il sacro tempio del tempo.

Il profumo del tempo

 

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“Agire è deleterio quando sostituisce il pensare”, amava ripetere un mio stimato professore universitario.
I filosofi si sforzano spesso di cogliere lo spirito del tempo o, quando sono particolarmente bravi, di anticiparlo. Rendono esplicito ciò che è nell’ aria, che tutti percepiscono più o meno confusamente. Questo si sforza di fare Byung-Chul Han, filosofo coreano che vive e lavora in Germania, in questo “Il profumo del tempo”, libro del 2009 solo di recente tradotto e pubblicato in Italia.

Han si occupa dunque del tempo, della sensazione comune che questo ci sfugga di mano, quella vaga idea di essere impegnati in una corsa sempre più veloce ma senza una direzione precisa.

Alle origini ogni cosa era piena di dei, il mondo stava come su una superficie piana, regolato dal ciclo delle stagioni, ogni anno uguale al precedente. Ogni cosa aveva un significato. Poi venne la Storia, e gli eventi cominciarono ad essere allineati su una retta, provvista di un senso, di una direzione, verso un futuro garantito prima da Dio e dopo , nella modernità, da un progetto umano. “Se il tempo è sensato nella misura in cui si muove verso una meta, allora l’ accelerazione acquista senso” (p. 26).
La nostra tuttavia è l’ epoca in cui alla nietzscheiana “morte di Dio” ha fatto seguito la fine di ogni narrazione forte, la “fine della Storia”. Non percepiamo più alcuna direzione, non si intravede alcuna meta, gli eventi non appaiono più allineati e neppure connessi fra loro, si susseguono senza alcun ordine, ci si muove in una sorta di zapping continuo e confuso.

In mancanza di una narrazione, non è più possibile neppure classificare gli eventi per importanza, e gli intervalli tra eventi slegati appaiono privi di senso, generano soltanto noia o angoscia. Più che viaggiatori ci si trova ad essere simili a turisti, interessati solo alle mete da visitare, mentre i trasferimenti sono una pura, insopportabile perdita da ridurre il più possibile. “Il turista non è in cammino in senso proprio, per lui i cammini si impoveriscono in vuoti percorsi che non meritano una visita. (…) E in questo modo scompare anche la ricchezza di senso del cammino” (p. 46). Il contrario di come dovrebbe essere, se è vero che: “Originariamente il termine tedesco per meditare, Sinnen (dall’ alto-tedesco antico sinnan) significava essere in cammino”. (p. 126).

Il tempo dunque si frantuma, internet consente di annullare gli intervalli spaziali e temporali, esistono soltanto il presente o il nulla. Ogni spazio vuoto va allora riempito con altri eventi, in una sorta di attivismo forzato, ed è proprio questo a darci la sensazione di accelerare sempre di più.
Ma l’ accumulo di fatti non fa di per sé una storia. Anzi. “La crescente molteplicità di decorsi temporali possibili (…) non ci porta affatto a una maggiore libertà, ma a una perdita di orientamento” (p. 41).
La vita non è più narrabile, farcita com’è di eventi slegati che si succedono senza tregua, e benché il postmoderno abbia cercato di rivalutare l’ evento in sé come pura presenza, “perdono importanza pratiche sociali come la promessa, la fedeltà o il vincolo, ossia tutte quelle pratiche temporali che fondano una durata, vincolando il futuro e delimitando un orizzonte” (p. 28). La morte stessa non è più “conclusione” ma (incomprensibile) violenza. Esperienza e conoscenza, che impongono un legame tra passato e presente, vengono rimpiazzati dall’ informazione, dalla enunciazione, dalla pura cronologia. “Nulla è importante. Nulla è decisivo. Nulla è definitivo. (…) E quando non è più possibile decidere cosa è importante, tutto perde di importanza” (p. 34)
Anche l’ arte si adegua, rinunciando alla narrazione in favore di una mera sovrapposizione di testimonianze o “eventi”.

Quella “vita activa”, che Aristotele considerava poco degna per un uomo libero, prende il sopravvento su quella contemplativa a partire dalla Riforma, quando il successo lavorativo appare per la prima volta come un segno di elezione divina, anticipando secondo Weber lo spirito del capitalismo. Lo stesso Marx mette il lavoro al centro della condizione umana, e la società consumistica non fa che rifiutare ogni indugio ed ogni “durabilità”. Il “tempo libero” adesso serve esclusivamente a reintegrare le energie lavorative.

“L’ addensamento di eventi, informazioni e immagini rende però impossibile indugiare” (p.49). L’unico rimedio ad una “vita activa” che diviene attivismo forzato, non è certo la rinuncia, lo sapevano bene i monaci medievali la cui regola era “ora et labora”, con la meditazione a scandire il tempo della vita lavorativa, dargli forma ed ancoraggio. Il rimedio è proprio il recupero di una dimensione contemplativa che accompagni e liberi la “vita activa”, le conferisca respiro e spirito, “profumo” e tessitura. Un recupero alla maniera di Proust, fatto di interconnessione tra gli eventi, di cammino e di intervalli di meditazione.

Riapprendere insomma quell’ “arte di indugiare sulle cose”, che è precisamente il sottotitolo di questo piccolo, stimolante saggio.

 

(Articolo pubblicato su Biblioscalo)

Crescere all’ ingiù 

 

Nell’inquieta attesa d’una fine  

rosseggiano le braci a fiamma spenta, 

cerco e non trovo specchi di me ora. 

Ignota condizione, il tramontare  

in pieno desiderio. 

 

Quasi un salmone contro la corrente, 

anch’io mi faccio ala al folle volo, 

all’ingiù, crescendo verso ciò che fui. 

Ardendo svanisco, invento età dell’oro. 

Sogno trasformazioni. 

 

Odisseo, ancora lui..

 

 

È sempre affascinante osservare come l’ Occidente continui a girare e rigirare attorno a certe storie, che per la maggior parte sono state originate nella Grecia antica. È come se, in quel tempo remoto, da quel piccolo popolo fosse stata allestita la scena, una volta per tutte, e per quanta storia sia trascorsa sotto i ponti, tuttora su quella scena ci troviamo tutti quanti, ancora adesso, a recitare. Quelle storie continuiamo a rigirarle, ci accompagnano e seguono, ci ammoniscono e confortano, ci mostrano la strada, dopo millenni. Da lì è cominciato tutto, anzi ancora prima, da un pugno di storie fantastiche tramandate per chissà quante generazioni prima che qualcuno le mettesse per iscritto.

Prendiamo Odisseo – Ulisse. La sua storia era già vecchia di secoli quando Socrate scandalizzava gli ateniesi benpensanti con i suoi discorsi in piazza. Eppure la storia di Odisseo – Ulisse non è mai stata archiviata, ha accompagnato l’ Occidente per tutta la sua storia, da Omero attraverso Dante, fino a Kavafis, Joyce, Walcott, tremila anni ed ancora non va in soffitta.

È chiaro, il personaggio è cambiato nei secoli e continua a cambiare, l’ eroe omerico voleva soprattutto tornarsene a casa sua, è stato Dante a farne il campione di una curiosità addirittura arrogante, che può condurre alla rovina, gli Illuministi invece lo vedevano eroe della volontà di conoscenza, il Novecento lo vide invece inquieto, in preda al male di vivere, insomma ogni età ha avuto un Odisseo diverso. Ma del resto, già in apertura del poema omerico l’ eroe viene definito “polytropos”, multiforme, dai molti aspetti, un camaleonte, e dunque dov’è la sorpresa ?

L’ ennesima reincarnazione del mitico eroe la trovo in un affascinante e raffinato libro di Daniel Mendelsohn, non a caso intitolato “Un’ Odissea”, come a dire un’ altra, ancora una fra tante.

Daniel Mendelsohn, già autore del libro-documento sull’Olocausto “ Gli Scomparsi”, è un docente universitario di lettere classiche. L’ anziano padre, Jay Mendelsohn, è invece un ottantenne matematico-ingegnere in pensione, uomo severo e rigido nei propri principi, con una passione repressa e mai spenta per la cultura classica.

Il professor Mendelsohn viene dunque incaricato di tenere un seminario universitario sull’ Odissea, ed il padre, un po’ a sorpresa, gli chiede di poter assistere.

Sin dal primo incontro, però, appare chiaro che l’ anziano Jay Mendelsohn non si limiterà affatto ad “assistere”, intende partecipare eccome, e dire la sua, coinvolgendo gli studenti, provocando discussioni con le sue idee, polemizzando. Un incubo. Al figlio non resta che fare buon viso a cattivo gioco.

Perché mai dovremmo considerare Odisseo un eroe ? È questo il punto centrale delle questioni che Mendelsohn padre solleva. In fondo Odisseo è un pessimo comandante, perde tutte le navi e tutti i suoi uomini, in parte perché non riesce a farsi ascoltare da loro. Per di più tradisce la moglie, è bugiardo e, parliamoci chiaro, le avventure che racconta sono così incredibili da giustificare il sospetto che se le stia inventando di sana pianta, o quantomeno che ci ricami attorno parecchio. E poi, scusate, che razza di eroe è uno che piange continuamente, che ad ogni passo ha accanto una dea pronta a spiegargli dove andare e cosa fare ? Quale merito ha lui nelle sue imprese se viene sempre aiutato ?

È chiaro che per il vecchio Mendelsohn, Odisseo è l’ antitesi del self-made man, è tutto ciò che un vero uomo non dovrebbe mai essere. L’ opposto di un eroe.

Le domande impertinenti del vecchio padre vivacizzano il seminario, tuttavia, tanto che al termine del semestre padre e figlio decidono di partire insieme per una crociera “sulle tracce di Odisseo”.

L’ Autore alterna con eleganza ed abilità il resoconto degli incontri al college, scanditi dai libri del poema, al racconto delle vicende personali dell’anziano genitore. Ne racconta il passato, il progressivo declino fisico, fino alla graduale (e tardiva) scoperta delle sue debolezze e fragilità, così bene nascoste a tutti, per una vita intera, sotto l’ immagine di uomo tutto d’ un pezzo.

Ma allora, sembra chiedersi l’ Autore, neppure Jay Mendelsohn era un vero eroe ?

Un inciso.

Viene naturale associare l’ eroismo ad una serie di caratteristiche positive quali forza, determinazione, costanza, tenacia, fermezza. Quella che viene chiamata resilienza, cioè la capacità di reggere ai colpi del destino, e rialzarsi ogni volta. E poi la bontà, naturalmente, la generosità e la nobiltà d’ animo. L’eroe è senza macchia e senza paura, ce lo insegnano da piccoli, non è vero ?

Il problema è che gli eroi, così come i santi, non sono affatto così. O almeno, non sono SOLO così.

Jung ha mostrato che tutto ciò che è illuminato non può non avere un’ ombra, solo nella tenebra totale non ci sono ombre.  Quanto più intensa la luce, tanto più scura l’ ombra proiettata, e la luce che investe gli eroi è intensissima. Possiamo rifiutarci di vederlo, naturalmente, ma tutto ciò che rimuoviamo ritorna sempre alla carica, e spesso in forma di malattia.

I Greci questo lo sapevano benissimo. I loro eroi sono uomini, “larger than life”, d’ accordo, ma umani, superano i comuni mortali nel bene così come nel male. Tipi poco raccomandabili, spesso. Forti e coraggiosi, curiosi ed avventurosi, ma anche, al bisogno, perfidi, traditori, cattivi, o persino deboli, come Agamennone ucciso dalla moglie infedele al suo ritorno, o come lo stesso Odisseo, che piange a dirotto davanti al fantasma della madre. Gli eroi classici sono rotondi e non piatti, si stagliano contro la luce e proiettano ombre distinte, ci mettono di fronte a ciò che siamo e talvolta preferiremmo ignorare di essere. E forse è proprio questo il motivo per cui sono modelli universali ed eterni, di cui non riusciamo a fare a meno.

 

Ed ecco infine il cerchio chiudersi, la narrazione farsi circolare, nel poema così come nella famiglia Mendelshon, attraverso il riconoscimento tra padri e figli. Da Telemaco che incontra Odisseo per la prima volta e dunque “ha poco da riconoscere”, come nota uno studente, allo stesso Odisseo che rinuncia ad ingannare il vecchio padre Laerte, perché un figlio, per quanto appartenga a suo padre, non lo conosce mai del tutto, perché il padre lo precede; ha sempre vissuto molto più del figlio, perciò il figlio non può mai mettersi in pari, arrivare a sapere tutto di lui”.

Fino a Daniel Mendelsohn stesso, un po’ Telemaco, un po’ Odisseo, che per la prima volta, attraverso una sorta di viaggio sentimentale, arriva a scoprire davvero l’anziano genitore.

Per finire con il lettore, che si trova a condividere pensieri profondi e riflessioni non banali su cosa significhino realmente i rapporti in una famiglia.

Il bosco s’è desto

A dispetto del tempo, oggi ostinatamente nuvolo e monocromo, il bosco sembra ormai deciso a cambiare abbigliamento. Moltitudini di primule e di viole non temono di sfidare, quasi provocare, con sapienti e colorati sberleffi il grigio malmostoso di questo cielo che incombe, quaresimale, penitenziale, punitivo.

Il giallo sfacciato è orgogliosa rinascita, non c’è dubbio, l’azzurro violaceo guarda invece più lontano, oltremare, che uno si domanda che ne saprà una viola, di cos’è l’oltremare. Non importa, sono qui entrambi, ed insieme provano a negare i colori caldi delle foglie secche tra cui si fanno spazio. Sgomitano tra loro pure i bianchi ed orgogliosi bucaneve, quasi sorpresi di non aver trovato niente da bucare.

Si preparano, lo senti che si preparano, per l’ arrivo ormai prossimo del mese più crudele, quello senza misericordia nel far nascere lillà dalla terra morta, nel mischiare ricordo e desiderio, nel ridar vita a disseccate radici con la pioggia di primavera, come dice il poeta. Quasi a ricordarci che com’ è la stirpe delle foglie, così è anche quella degli uomini, che le foglie, alcune il vento ne versa a terra, altre il bosco in rigoglio ne genera, quando giunge la stagione della primavera: così una stirpe di uomini nasce, un’altra s’estingue, come diceva molto tempo prima un altro poeta. Ma a me non importa, stare al caldo d’ inverno non è il mio forte, e dunque ricominci presto a scorrere, l’ acqua di primavera, e smuova pure ricordi e desideri.

Bravi del resto i poeti a vantare similitudini analogie e metafore, bravi davvero, ma chi di loro si sente in grado di descrivere questo odore, l’ odore particolare del bosco in una umida mattina di inizio primavera ?

L’ elleboro si guarda intorno un po’ perplesso, è stata la primadonna nei mesi di pieno inverno, pressoché senza rivali, e adesso sembra percepire che è tempo di lasciare la scena, quasi che il bosco non abbia più bisogno di lui. È dura da digerire, si capisce, e lui, l’elleboro, c’è rimasto male ed ha la faccia un poco smarrita dell’attore sul viale del tramonto. Chissà se gli hanno spiegato che qui nel bosco il tempo è circolare, mica quella fesseria a forma di freccia che si sono inventati gli umani, per forza che poi gli viene l’ansia. Chissà se immagina che la sua stagione tornerà, ancora e ancora e ancora. L’agrifoglio invece no, lui non ci pensa, sembra essersi rassegnato senza problemi, tanto  è sempreverde e che volete che gli freghi, ad un sempreverde, del tempo circolare e delle stagioni ?

Più in alto ancora c’è la neve, ed attutisce il mondo intero, colori, odori e rumori si attenuano fin quasi a scomparire, ma si capisce che è solo un trattenere il respiro prima che inizi il nuovo spettacolo.

Sì, nel bosco certe volte si ha la sensazione che la natura in fondo non possa che fregarsene di noi sciagurati umani, e se ne vada  più o meno per la sua strada, chi c’è, c’è.

E a volte mi trovo a sperare che sia davvero così.

Vista aerea

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Come se fossi un drone ora veleggio
m’alzo, volteggio, volo, scatto foto.
Osservo, dall’ alto e più distante,
panorami di vita squadernati.

Ruderi del passato ingentiliti
dal fitto rampicante del ricordo,
linee di faglia là, dove una volta
cambiò di colpo il corso d’un gran fiume,

i monti, i boschi, i fitti luoghi d’ombre
dove un tempo s’udivano i sospiri ,
e i campi desolati, inariditi,
ingenui nell’attender temporali.

Sottile, evanescente  all’orizzonte
l’ incanto d’una terra da scoprire.