Il profumo del tempo

 

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“Agire è deleterio quando sostituisce il pensare”, amava ripetere un mio stimato professore universitario.
I filosofi si sforzano spesso di cogliere lo spirito del tempo o, quando sono particolarmente bravi, di anticiparlo. Rendono esplicito ciò che è nell’ aria, che tutti percepiscono più o meno confusamente. Questo si sforza di fare Byung-Chul Han, filosofo coreano che vive e lavora in Germania, in questo “Il profumo del tempo”, libro del 2009 solo di recente tradotto e pubblicato in Italia.

Han si occupa dunque del tempo, della sensazione comune che questo ci sfugga di mano, quella vaga idea di essere impegnati in una corsa sempre più veloce ma senza una direzione precisa.

Alle origini ogni cosa era piena di dei, il mondo stava come su una superficie piana, regolato dal ciclo delle stagioni, ogni anno uguale al precedente. Ogni cosa aveva un significato. Poi venne la Storia, e gli eventi cominciarono ad essere allineati su una retta, provvista di un senso, di una direzione, verso un futuro garantito prima da Dio e dopo , nella modernità, da un progetto umano. “Se il tempo è sensato nella misura in cui si muove verso una meta, allora l’ accelerazione acquista senso” (p. 26).
La nostra tuttavia è l’ epoca in cui alla nietzscheiana “morte di Dio” ha fatto seguito la fine di ogni narrazione forte, la “fine della Storia”. Non percepiamo più alcuna direzione, non si intravede alcuna meta, gli eventi non appaiono più allineati e neppure connessi fra loro, si susseguono senza alcun ordine, ci si muove in una sorta di zapping continuo e confuso.

In mancanza di una narrazione, non è più possibile neppure classificare gli eventi per importanza, e gli intervalli tra eventi slegati appaiono privi di senso, generano soltanto noia o angoscia. Più che viaggiatori ci si trova ad essere simili a turisti, interessati solo alle mete da visitare, mentre i trasferimenti sono una pura, insopportabile perdita da ridurre il più possibile. “Il turista non è in cammino in senso proprio, per lui i cammini si impoveriscono in vuoti percorsi che non meritano una visita. (…) E in questo modo scompare anche la ricchezza di senso del cammino” (p. 46). Il contrario di come dovrebbe essere, se è vero che: “Originariamente il termine tedesco per meditare, Sinnen (dall’ alto-tedesco antico sinnan) significava essere in cammino”. (p. 126).

Il tempo dunque si frantuma, internet consente di annullare gli intervalli spaziali e temporali, esistono soltanto il presente o il nulla. Ogni spazio vuoto va allora riempito con altri eventi, in una sorta di attivismo forzato, ed è proprio questo a darci la sensazione di accelerare sempre di più.
Ma l’ accumulo di fatti non fa di per sé una storia. Anzi. “La crescente molteplicità di decorsi temporali possibili (…) non ci porta affatto a una maggiore libertà, ma a una perdita di orientamento” (p. 41).
La vita non è più narrabile, farcita com’è di eventi slegati che si succedono senza tregua, e benché il postmoderno abbia cercato di rivalutare l’ evento in sé come pura presenza, “perdono importanza pratiche sociali come la promessa, la fedeltà o il vincolo, ossia tutte quelle pratiche temporali che fondano una durata, vincolando il futuro e delimitando un orizzonte” (p. 28). La morte stessa non è più “conclusione” ma (incomprensibile) violenza. Esperienza e conoscenza, che impongono un legame tra passato e presente, vengono rimpiazzati dall’ informazione, dalla enunciazione, dalla pura cronologia. “Nulla è importante. Nulla è decisivo. Nulla è definitivo. (…) E quando non è più possibile decidere cosa è importante, tutto perde di importanza” (p. 34)
Anche l’ arte si adegua, rinunciando alla narrazione in favore di una mera sovrapposizione di testimonianze o “eventi”.

Quella “vita activa”, che Aristotele considerava poco degna per un uomo libero, prende il sopravvento su quella contemplativa a partire dalla Riforma, quando il successo lavorativo appare per la prima volta come un segno di elezione divina, anticipando secondo Weber lo spirito del capitalismo. Lo stesso Marx mette il lavoro al centro della condizione umana, e la società consumistica non fa che rifiutare ogni indugio ed ogni “durabilità”. Il “tempo libero” adesso serve esclusivamente a reintegrare le energie lavorative.

“L’ addensamento di eventi, informazioni e immagini rende però impossibile indugiare” (p.49). L’unico rimedio ad una “vita activa” che diviene attivismo forzato, non è certo la rinuncia, lo sapevano bene i monaci medievali la cui regola era “ora et labora”, con la meditazione a scandire il tempo della vita lavorativa, dargli forma ed ancoraggio. Il rimedio è proprio il recupero di una dimensione contemplativa che accompagni e liberi la “vita activa”, le conferisca respiro e spirito, “profumo” e tessitura. Un recupero alla maniera di Proust, fatto di interconnessione tra gli eventi, di cammino e di intervalli di meditazione.

Riapprendere insomma quell’ “arte di indugiare sulle cose”, che è precisamente il sottotitolo di questo piccolo, stimolante saggio.

 

(Articolo pubblicato su Biblioscalo)

Un’ alba e mezza sera

Madrid

È presto, è una mattina limpida e fredda, un sole grande, rossastro e freddo si riflette nitido sulle grandi vetrate dell’ aeroporto, abbagliandomi piuttosto gradevolmente.

È Madrid, stavolta, ma potrebbe essere qualsiasi altro posto, la sensazione di déjà vu può attingere a piacimento da un database di innumerevoli analoghe mattine in altresì innumerevoli aeroporti, aspettando coincidenze o voli di ritorno spesso ad orari assai più obiettabili di questo. Ripetizioni ad libitum di questa medesima incongrua percezione di tempo sospeso, cambiano i Paesi, le facce, gli abiti indossati, le lingue parlate, cambiano (poco) le preoccupazioni, cambiano (non poco, ormai) gli anni trascorsi transitando in non luoghi di mezzo mondo.

Quanto sia cambiato anch’ io è più difficile da dire, naturalmente, la percezione interiore del trascorrere del tempo poco ha a che vedere con la realtà, è una percezione fatta di lunghi pianori dove non succede quasi nulla ed improvvisi salti o gradini, in cui qualcosa di importante invece accade, cambia o si spezza.

È una condizione sospesa, quella di oggi, o almeno così mi appare, come sul bordo di una frattura incipiente, in bilico prima di un salto, che sia all’ indietro verso una condizione conosciuta, oppure in avanti verso un nuovo pianoro inesplorato, questo ancora non si sa.

Il tassista aveva una voglia di parlare come raramente accade la mattina così presto e così correndo, parlando e ascoltando musica alla radio penso che lui di sicuro la colazione l’ ha fatta ed io invece no, nemmeno un bar aperto. Perlomeno stanotte ho dormito il minimo sindacale di ore, il che a Madrid non sempre è dato, tanto che mi sono dovuto inventare qualcosa per riuscirci. I ristoranti prima dalle nove nemmeno aprono, l’ avvio della cena si stabilizza intorno alle dieci ed il ritorno in albergo sempre abbondantemente oltre il cambio di data. Facendomi forte del generoso pranzo offertomi dai non sempre generosi partners (Anchoas del Cantabrico e Calamares en su tinta, per i più precisi ) ho rinunciato alla cena contro-offrendo un aperitivo. Olé.

E allora tapas.

Tapas in un bar tradizionale che più tradizionale non si può, tradizionale però vero, non trappola per turisti, un bar da aperitivi che – nonostante ciò – alle otto e mezza è ancora mezzo vuoto.

Jamòn iberico, chorizo, huevos estrellados, e via tapando, a che serve la cena ? Serve giusto un digestivo, semmai, quello che qui chiamano Orujo de hierbas, un liquore fatto con la grappa (pardon, l’ aguardiente), dolce e dorato che ricorda un po’ il nostro Strega. Lo so che molti inarcheranno il sopracciglio, ma a me questa roba piace, senza contare che si è dimostrato capace di cacciare giù qualsiasi genere di tapa, sanguinaccio compreso (capita, eccome se capita…), che si possa ritrovare nel piatto. Legittima difesa, insomma, che la cucina locale non ama le mezze misure.

Bar, tapas e notte madrilena (neppure iniziata a dire il vero, diciamo mezza sera) che appaiono già lontani e remoti di fronte a questa gloriosa mattina di sole riflesso dalle vetrate e, oltre le vetrate, dalla neve sulle alture circostanti, presagio delle Alpi che seguiranno, in questa ennesima mattina di ordinario, assai precario, ritorno.

Il suono del silenzio – Reloaded

erna 17-11-13

“Hello darkness, my old friend, I’ ve come to talk with you again”

Così cantavano Simon & Garfunkel un’ era geologica fa, quando i dinosauri si credevano giovani e lo sticker orgogliosamente proclamava “Underground Music !”. Figuriamoci, buona per fare il remake di “Cocoon”, quella “underground music” oggi.  Ma la radio stamattina la passa e dunque sorvoliamo.

“I’ ve come to talk with you again” mi piacerebbe dirlo oggi a questa testarda e paziente montagna, così vicina, così accessibile, nemmeno tanto alta, quasi banale, quella che normalmente sarebbe solo una camminata di due ore ma per vari motivi invece è un ritorno.

“I’ ve come to talk with you again” perché salire è sempre un parlare, anche se sei da solo, e spesso da soli anche di più, perché parlare non è necessariamente pronunciare parole a voce alta, quello serve soprattutto quando non ci si capisce, e non è questo il caso. E neppure “darkness” è tanto il caso, anzi, è tutto il contrario, qui oggi la luce è nitida e trasparente come certe giornate novembrine sanno regalare a sorpresa, e sarà merito di San Martino o dell’ estate indiana, in fondo non importa.

ciclaminiÈ tutto luce, qui oggi, ombre e chiaroscuri ed improvvisi scoppi di colore, vuoi un agrifoglio prenatalizio oppure un ciclamino nascosto negli anfratti umidi ed ombrosi vicino a una sorgente. È tutto tranne che buio, il buio è rimasto a valle, nel cuore della notte o nella notte del cuore, quella a cui tento di porre un precario rimedio.

“Silence like a cancer grows” . Laggiù, forse, nel buio della note e del cuore da cui provengo. Li’, forse il silenzio cresce come un cancro, o un cancro cresce nel silenzio. Qui no. Qui il silenzio non è malattia, niente affatto, qui il silenzio semmai è cura. E non è nemmeno silenzio, a volerla dire tutta, perché se ti fermi ad ascoltare senti l’ acqua che scorre, l’ aria che si muove, le foglie che si agitano, piccole creature che zampettano o sfrecciano. Lo star bene non è mai un vero silenzio.

No one dares / disturb the sound of silence”. Nessuno osa disturbare il silenzio, chi arriva, parla poco oppure tace e ascolta, qui. È un silenzio luminoso contro il silenzio buio e cattivo della notte, degli uomini, il silenzio di una natura che è e che sarà, al di là del bene e del male perché, semplicemente, prima del bene e del male, e di ogni concetto. Inconsapevole, senza passato e futuro che non siano il ritmo ciclico delle stagioni. Natura che è, e tanto gli basta, e per una volta vorrei che bastasse anche a me, seduto al sole gentile di questa stagione, vorrei che mi bastasse questo essere inconsapevole, prima dei concetti, come un elisir salvifico.

Da quassù, la città è possibile vederla, volendo, e persino, a concentrarsi, ascoltarne l’ eco lontanissima. È il luogo del buio, da qui lo capisci bene, della notte e del desiderio. La natura è eterno presente, invece, e così anche eterno passato ed eterno futuro, sì, futuro, l’ etimologia non mente e “natura” viene dal participio futuro di “nascere”, è promessa di generazione a dispetto di tutto, per quanto infestanti e devastanti noi uomini non riusciremo a togliere il futuro dal participio, ma semmai a togliere noi da quel futuro participio, rendendo l’ ambiente inadatto a sostenerci. Lei, la natura sopravvivrà persino alla nostra follia, statene pur certi.

Ma noi  non ci saremo”.

Questa però è un’ altra canzone.

Alleggerendosi

“La’ dove le cose hanno la loro origine, la’ hanno anche il loro dissolvimento secondo necessita’; infatti esse pagano l’ un l’ altra la pena e l’ espiazione dell’ ingiustizia secondo l’ ordine del tempo”.

Anassimandro

 

È come se fosse venuta meno, da qualche tempo, l’ urgenza dello scrivere, così come diverse altre urgenze. È una sorta di ritrarsi, come basato sulla crescente cognizione della inesorabile vanità del tutto e dell’ insensata fatica del vivere. Qualcuno lo ha percepito.

Tengo desti i molti interessi, alimento curiosità ed argomenti, ma nella cornice complessiva di una crescente consapevolezza della complessiva mancanza di senso, di una rassegnazione all’ inutilità quasi ontologica, metafisica, di questa fatica.

Il percorso davanti mi si delinea sempre più in una prospettiva di astinenza, che si manifesta come uno svuotamento, che è al tempo stesso un alleggerimento. Molti dei pesi caricati nel corso della vita appaiono privi di un autentico contenuto di valore, ed è il momento invece di mutare verso una riduzione della zavorra,  perché questo è il tono che si addice a questa fase.

Meno cibo è abbastanza, è un dato di fatto, questo, il poco basta, il metabolismo chiede meno. L’ astinenza rende lucidi e più desti, l’ ottundente sazietà non attrae più come talvolta in passato. Le difficoltà digestive favoriscono indubbiamente  il processo. Gli asceti saranno stati tutti dispeptici ?

Meno e meglio, l’ esperienza semmai aiuta a scegliere, almeno quello, la fase dell’ esplorazione famelica e quantitativa è trascorsa ed ha perso la sua attrattiva, quello che affascina adesso è la possibilità di esercitare l’ arte sottile della distinzione, giocare sugli aspetti sottili della selezione.

Ciò che sopravvive al trascorrere degli anni è un distillato di ciò che si è assorbito ed elaborato nel tempo, filtrato attraverso l’ esperienza ed il disincanto. Nulla più appare urgente, tutto può attendere affinché sia operata una scelta paziente e saputa. Non ha senso cercare di aumentare ancora il bagaglio, è più opportuno selezionare nel bagaglio stesso ciò che è radicalmente proprio, da tenere con sé in quanto indispensabile al carattere. Da portare sull’ isola deserta.

Il punto irrimediabilmente debole di tutto ciò è il desiderio che rifiuta il governo, così come lo ha sempre rifiutato. Il desiderio che no, non invecchia e non s’ arrende, e che si può solo sperare, alla bell’ e meglio, di governare. Servirebbe la condivisione, l’ amicizia vera, per esercitare nel confronto e nell’ affinità un tale esercizio selettivo, secondo scale di valori e canoni di riferimento tutti da rivalidare.  Ed invece, pare che nel bagaglio qualcosa di così essenziale venga a mancare.

L’ urgenza compulsiva, la velocità e voracità che non tolleravano lacci e pastoie non hanno dato spazio alla disponibilità, all’ ascolto, alla presa in carico, all’ alimentare necessari rapporti in un vivere frenetico e desiderante.

Tutto si tiene e tutto si paga, nell’ ordine supremo delle cose, come sapeva Anassimandro. Secondo l’ ordine inesorabile del tempo.

Quelli che scrivono


Quelli che scrivono anche a occhi chiusi.

Quelli che quando si sentono vivi la prima cosa è trovare parole nuove per raccontare.

Quelli che scrivono quando sono disperati, distillando le parole con l’alambicco del dolore.

Quelli che scrivono le nostalgie come se stessero facendo l’amore.

Quelli che quando non scrivono non è perché basta fare piovere parole per raccontare la pioggia.

Quelli che scrivono sono un po’ come i ragazzi che si amano, non ci sono per nessuno.

Quelli che scrivono, quando si scrivono, vivono le pagine non scritte dei libri.

 Sono tutto quello che succede dopo l’ultima pagina.

(by La Poetessa Rossa)

 

Quelli che scrivono non lo fanno per convenienza, spendono tempo e fatica, a fondo perduto.

Quelli che scrivono non sono narcisi e non adorano se stessi, benché, ammettiamolo, siano talvolta un po’ autocentrati.

Quelli che scrivono sono spesso in equilibrio, precario e traballante, troppe chiusure e poche aperture. Costruiscono mondi dalle fondamenta piccolissime, inadatte a sostenere tanto peso, fondamenta che sembrano persino restringersi col tempo, ritirarsi mentre la costruzione procede. Quelli che scrivono fanno torri sbilenche.

Quelli che scrivono sono abituati a silenzi prolungati, si commuovono alla dolcezza, sono abbagliati come chi è stato a lungo nell’ oscurità. Quelli che scrivono hanno menti surriscaldate e gole disseccate, vedono talvolta miraggi nel deserto.

Ogni cosa va verso il basso, affetta da una “gravitas” che la trascina verso il centro della Terra, è questa la natura del mondo. Le parole invece no, quelle non cadono, vanno verso l’ alto, si irradiano dal centro, si oppongono al mondo, è questa la natura delle parole.

Quelli che scrivono secernono parole che vanno verso l’ alto e verso l’ esterno, tentacoli, o mani protese.

Quelli che scrivono cercano di non implodere.

Contatti

Le vite si dispiegano nello spazio della realtà lungo traiettorie complesse ed irregolari, ciascuna a modo suo, spinte dalla necessità, dalle circostanze o più raramente da qualche inclinazione interna propria a ciascuna.

Nel percorrere le loro imprevedibili o talvolta prevedibilissime traiettorie, le vite a volte si sfiorano, entrano in contatto per un breve periodo prima di separarsi nuovamente, altre volte invece si attaccano l’ una all’ altra per un tempo più lungo, a volte persino rimangono attaccate.

Nel toccarsi e separarsi, certe vite sembrano a volte rincorrersi, cercarsi, mostrano strane attrazioni il più delle volte inconsapevoli. Può persino accadere che solo nel momento di un nuovo incontro, solo quando le traiettorie di nuovo si intersecano, solo allora si rendono conto di essersi a lungo cercate. Il che, naturalmente, non comporta alcunché, né impedirà loro di staccarsi nuovamente se a questo dovesse portare il gioco del caso, delle circostanze o delle inclinazioni.

Di questo conserveranno però memoria, come una sorta di sigillo, un’ impronta speciale e permanente che a volte, rare volte, le anime, senza intenzione o consapevolezza, incidono  le une sulle altre.

E’ un privilegio e non lo sanno.

Al canto del gallo

Mi sveglio all’ alba, anche prima, per motivi che non riconosco. Lascio il letto e mi aggiro per casa, in una condizione di sensibilità esaltata dall’ assenza di stimoli esterni. Poche macchine per strada, e ciascuna si staglia contro lo sfondo del silenzio come se fosse un’ ombra cinese proiettata su di un fondale candido.

La pendola nella sala, la pendola del nonno, assume un ruolo da protagonista, il ticchettio sembra fatto di colpi di martello ed il rintocco delle ore e mezze ore pare levarsi come quello di campane d’ un duomo medievale. Il contrasto col silenzio del mondo esalta ogni minimo suono, rumore, scricchiolio, ogni fruscio ed ogni sibilo. Puoi toccare ogni rumore come vedere le stelle in una notte serena in alta montagna, sapendo che sono lì dove sono sempre state, ma com’ erano soffocate dall’ eccesso di luci, non le si vedeva in pianura.

E mi viene anche da pensare a quanti simili eccessi ottundono i sensi ed inebetiscono le percezioni, anestetizzando la capacità di distinguere, isolare, riconoscere, una sorta di deprivazione cercata, voluta, perseguita rende giustizia alla ricchezza attraverso la povertà, esalta i sapori del mondo, riabitua alle distinzioni, al riconoscere le differenze.

Suoni isolati, distinti, enumerabili prendono il posto di un rumore di fondo inconoscibile ed insapore. Impoverirsi per arricchirsi, sembra una contraddizione ma non lo è, almeno stamattina.

In questo silenzio prima dell’ alba, mentre in lontananza si ode distintamente un gallo cantare, da insonne mi sento ricco.

Il/limitato

illimite

Volevo provare i confini della realtà, volevo vedere a che punto potevo arrivare. Tutto qui, solo curiosità.

Jim Morrison

 

Il limite non è chiusura, ma apertura, esiste più che altro come stimolo intellettuale, o fisico. Il limite è una provocazione, un punto di sfida alla curiosità. Ogni porta chiusa rappresenta un invito ad aprirla.

Eccoti in riva al mare, sul bagnasciuga. Hic sunt leones. Nec plus ultra. Non proseguire oltre, fermati, questo è il tuo limite. Cosa rappresenta questo se non uno stimolo irresistibile a proseguire ? Cosa c’è dall’ altra parte ? E perché mai non dovrei andarci ?

Come dinanzi ad ogni porta chiusa, la sfida consiste nel trovare la chiave, oppure il modo di scardinare, e la motivazione, semplicemente, nel cercare di sapere cosa c’è dall’ altra parte.

Non siamo animali stanziali, non lo siamo mai stati se non nell’ ultimo, brevissimo insignificante periodo della cosiddetta civiltà, un battito di ciglia nella storia di una specie umana che invece ha sempre trovato il senso del proprio destino nell’ esplorazione, cioè nel viaggio. Animali migratori che si fanno domande, bestie curiose in cerca di scoperte, tastando il limite giusto per avere un motivo, qualcosa da superare, uno stimolo ad escogitare, a produrre, a creare.

Creare è produrre qualcosa dal nulla, giusto, ma allora per fare questo prima occorre sentire che ciò che c’è non basta, occorre una mancanza ed un desiderio. Ci vuole una porta chiusa, insomma, che è la domanda perfetta. La curiosità è mancanza, desiderio e stimolo, frusta e sperone.

Può diventare ossessione ?

È questo, proprio questo, il punto. Superare un limite per il gusto di superarlo, per la gioia dell’appagamento, per vedere cosa c’è di là, produce assuefazione, e dipendenza. Superata una porta chiusa subito si va alla ricerca di un’ altra, e poi un’ altra ancora, è questa la dipendenza. E la nuova sfida deve rilanciare, alzare il livello, essere più impegnativa e temeraria, comportare maggiori difficoltà e rischi. È questa l’ assuefazione.

Qualunque cosa arricchisca la vita può degenerare, diventa tossica nel momento esatto in cui ribalta il mezzo col fine e diventa essa stessa, da mezzo, fine. La ricerca fine a se stessa del limite sempre nuovo è una droga, e, come ogni droga, anche un anestetico. Nasconde e copre il dolore. Stimolare certe sensazioni può essere un modo ingegnoso per attutirne altre. La musica a volume eccessivo serve a non ascoltare, il sonnifero serve a non sognare, se i sogni rischiano di essere incubi.

Cosa c’è  dunque dietro a questa ossessione per il limite ? Quale sofferenza si nasconde per non farsi vedere ? La ricerca di limiti esterni non può essere forse un diversivo che distoglie l’ attenzione dal limite interno, da una mancata accettazione di se e della propria finitezza, dei propri stessi confini, che si può cercare di espandere, come gonfiare un palloncino, ma che non si possono davvero rimuovere ?

L’ insoddisfazione profonda, il rifiuto di specchiarsi e riconoscersi si proietta all’ esterno in sfide e tentazioni, irrequietezza e curiosità. Il blocco è una vita non condivisa, un peso sempre addosso, una colpa di vivere irredimibile ed angosciante, un dovere di riscatto ancora più terribile in quanto privo di vere motivazioni.

Non c’è maggior colpa che l’ esser nati, diceva Calderòn, e questo peso, questo carico richiedono una risposta nella forma di un’ assunzione di responsabilità rispetto a cui il limite esterno è una sfida assai più oggettivabile, e dunque, paradossalmente, più gestibile, maneggiabile, dominabile.

Utilizzabile forse, addirittura.

Grigio a Dicembre

grigio a dicembre

Ci sono giorni d’ inverno in cui il cielo e la terra sembrano confondersi e mescolarsi, la linea dell’ orizzonte diventa un offuscato sfumare fra il grigio ed il biancastro. In giorni come questi tutto sembra sciatto e trascurato come una degradata periferia urbana, e l’ anima stessa si fa sentire logora e stanca, col solo desiderio di rintanarsi in un letargo indefinito.

L’ inverno è capace di splendori ineguagliabili, lo so bene, quando il cielo sereno e l’ aria cristallina consentono al sole basso di incendiare le finestre delle case e scintillare sulle punte dei rami di alberi innevati. In quei momenti il mondo appare rimesso a nuovo, pulito e pettinato e pronto per un nuovo ingresso in società; ed un po’ rimesso a nuovo si sente anche chi a quello spettacolo assista, meravigliato e grato.

Ma oggi non è così. Oggi l’ inverno mostra il suo volto più mortifero, ed il grigiore sembra soffocare anche la speranza in un futuro. Nessuna rinascita appare possibile sotto il peso metallico di questo cielo compatto, nessuna redenzione sembra poter salvare questo mondo consunto, né alcun nuovo avvento poter dare un nuovo inizio ad alcunché.

Sembra piuttosto di avviarsi verso un crepuscolo nebbioso, un estenuato affievolirsi delle energie, l’estinguersi della fiamma di una lampada rimasta senz’ olio, questo appare l’ inevitabile fatale futuro dentro quell’ orizzonte incerto e confuso.

Occorre farsi forza per trovare comunque un seme di speranza, per ricordare che il tempo è fatto di cerchi, cicli da attraversare come la freccia di Ulisse che s’ infila tra gli anelli nella sfida ai Proci. E dunque, ad anello segue anello, bisogna crederci, arriverà un nuovo risveglio, la natura incurante delle colpe umane nuovamente produrrà germogli nutrendosi delle foglie secche, marcite quest’ autunno.

Ancora una fioritura coprirà il mondo come una Grazia arcana, ignara ed immeritata.

Il giorno che imparai a respirare


Il giorno che imparai a respirare non fu neppure un giorno speciale.

Era una bella giornata di sole, il cielo azzurro di primavera, una bella giornata davvero, questo va detto, ma niente di veramente memorabile, quello che davvero rese la giornata speciale fu il fatto di sentire il mio respiro.

La vita spesso non è che un lungo rispondere agli altri, far fronte ad un carico infinito di aspettative da non deludere, che cominciano da quando sei bambino. Anzi, già prima se vogliamo, nel momento in cui nasci, in quel preciso momento ti trovi già sulle spalle la faccenda del peccato originale, devi essere redento. E la redenzione, si capisce, non è nelle tue mani, ti serve niente di meno che un sacramento per cancellare gli effetti di questo peccato originale in cui hai per qualche motivo l’ impressione di non entrarci per nulla.  Oggi nemmeno te ne accorgi, piccolo di pochi giorni, di quello che succede, ma un tempo dovevi proprio entrare nel fiume con le tue gambe, e farti mettere la testa sotto l’ acqua, giusto per dire gli estremi di sottomissione richiesti al battezzando. Da neonato non ti accorgi, ma dopo sì. Sottomissione.  Ubbidienza.

Il sistema non ti molla più, un sacramento tira l’ altro, catechismo dopo catechismo, per non parlare poi delle aspettative su cui è costruito l’ intero sistema scolastico.

E l’ istituzione familiare dove la mettiamo ? La gioia di mamma e papà, il bastone della loro vecchiaia, che brillante futuro ci farà vedere questo ragazzo, mica come noi che non abbiamo avuto fortuna nella vita.

Roba bella forte, questa.

Aspettative su aspettative, il futuro aumenta sempre più di peso, schiaccia, toglie il fiato, a vent’ anni e pure dopo. Soprattutto se hai l’ oscura sensazione che non riuscirai mai e poi mai a dimostrarti all’ altezza di cotante aspettativa, qualunque cosa fatta e qualunque traguardo raggiunto, qualunque sfida superata, servono solo ad alzare ancora di più l’ asticella. Non basta mai, non basta mai.

Il brillante futuro incombe, le promesse da mantenere, non importa se non sei stato tu a farle, quelle promesse, in fondo anche il peccato originale non l’ avevi commesso tu, ti ricordi ? Reputazione, reputazione da mantenere.

Ed allora la strada è segnata, da figlio a studente modello a fidanzato impeccabile, marito e padre modello, il sistema non prevede crepe né difetti.

Chi te lo fa fare? Nessuno e tutti. È un complesso di imposizioni introiettate, divenute autoimposizioni, si diventa negrieri ed aguzzini di se stessi.

Da giovani la vita la si immagina come un “do ut des”, sembra brutto dirlo così, ma una specie di contabilità mentale esiste davvero,  a comportarsi bene ci si aspetta una ricompensa, la si pretende se non arriva. In questa o nell’ altra vita, ha pur da esserci essere una specie di redistribuzione dei profitti in base ai meriti.

Ha da esserci ? Ma chi lo dice ?

La vita non è affatto cartesiana, non è retta dai principi contabili della partita doppia, i conti di solito non tornano in pareggio, è per quello è bello credere in una rivincita nell’ aldilà.

Può persino succedere che chi più dà meno riceva e chi non dà affatto riceva moltissimo, tanto che a queste cose ci si dovrebbe fare l’ abitudine, non farci neanche più caso, no ?

No. Proprio no.

Piegare la vita alle aspettative altrui non è come metterla in mano a questi altri, quell’ unica piccola vita ?

Il giorno che imparai a respirare la vita me la ripresi.