“Agire è deleterio quando sostituisce il pensare”, amava ripetere un mio stimato professore universitario.
I filosofi si sforzano spesso di cogliere lo spirito del tempo o, quando sono particolarmente bravi, di anticiparlo. Rendono esplicito ciò che è nell’ aria, che tutti percepiscono più o meno confusamente. Questo si sforza di fare Byung-Chul Han, filosofo coreano che vive e lavora in Germania, in questo “Il profumo del tempo”, libro del 2009 solo di recente tradotto e pubblicato in Italia.
Han si occupa dunque del tempo, della sensazione comune che questo ci sfugga di mano, quella vaga idea di essere impegnati in una corsa sempre più veloce ma senza una direzione precisa.
Alle origini ogni cosa era piena di dei, il mondo stava come su una superficie piana, regolato dal ciclo delle stagioni, ogni anno uguale al precedente. Ogni cosa aveva un significato. Poi venne la Storia, e gli eventi cominciarono ad essere allineati su una retta, provvista di un senso, di una direzione, verso un futuro garantito prima da Dio e dopo , nella modernità, da un progetto umano. “Se il tempo è sensato nella misura in cui si muove verso una meta, allora l’ accelerazione acquista senso” (p. 26).
La nostra tuttavia è l’ epoca in cui alla nietzscheiana “morte di Dio” ha fatto seguito la fine di ogni narrazione forte, la “fine della Storia”. Non percepiamo più alcuna direzione, non si intravede alcuna meta, gli eventi non appaiono più allineati e neppure connessi fra loro, si susseguono senza alcun ordine, ci si muove in una sorta di zapping continuo e confuso.
In mancanza di una narrazione, non è più possibile neppure classificare gli eventi per importanza, e gli intervalli tra eventi slegati appaiono privi di senso, generano soltanto noia o angoscia. Più che viaggiatori ci si trova ad essere simili a turisti, interessati solo alle mete da visitare, mentre i trasferimenti sono una pura, insopportabile perdita da ridurre il più possibile. “Il turista non è in cammino in senso proprio, per lui i cammini si impoveriscono in vuoti percorsi che non meritano una visita. (…) E in questo modo scompare anche la ricchezza di senso del cammino” (p. 46). Il contrario di come dovrebbe essere, se è vero che: “Originariamente il termine tedesco per meditare, Sinnen (dall’ alto-tedesco antico sinnan) significava essere in cammino”. (p. 126).
Il tempo dunque si frantuma, internet consente di annullare gli intervalli spaziali e temporali, esistono soltanto il presente o il nulla. Ogni spazio vuoto va allora riempito con altri eventi, in una sorta di attivismo forzato, ed è proprio questo a darci la sensazione di accelerare sempre di più.
Ma l’ accumulo di fatti non fa di per sé una storia. Anzi. “La crescente molteplicità di decorsi temporali possibili (…) non ci porta affatto a una maggiore libertà, ma a una perdita di orientamento” (p. 41).
La vita non è più narrabile, farcita com’è di eventi slegati che si succedono senza tregua, e benché il postmoderno abbia cercato di rivalutare l’ evento in sé come pura presenza, “perdono importanza pratiche sociali come la promessa, la fedeltà o il vincolo, ossia tutte quelle pratiche temporali che fondano una durata, vincolando il futuro e delimitando un orizzonte” (p. 28). La morte stessa non è più “conclusione” ma (incomprensibile) violenza. Esperienza e conoscenza, che impongono un legame tra passato e presente, vengono rimpiazzati dall’ informazione, dalla enunciazione, dalla pura cronologia. “Nulla è importante. Nulla è decisivo. Nulla è definitivo. (…) E quando non è più possibile decidere cosa è importante, tutto perde di importanza” (p. 34)
Anche l’ arte si adegua, rinunciando alla narrazione in favore di una mera sovrapposizione di testimonianze o “eventi”.
Quella “vita activa”, che Aristotele considerava poco degna per un uomo libero, prende il sopravvento su quella contemplativa a partire dalla Riforma, quando il successo lavorativo appare per la prima volta come un segno di elezione divina, anticipando secondo Weber lo spirito del capitalismo. Lo stesso Marx mette il lavoro al centro della condizione umana, e la società consumistica non fa che rifiutare ogni indugio ed ogni “durabilità”. Il “tempo libero” adesso serve esclusivamente a reintegrare le energie lavorative.
“L’ addensamento di eventi, informazioni e immagini rende però impossibile indugiare” (p.49). L’unico rimedio ad una “vita activa” che diviene attivismo forzato, non è certo la rinuncia, lo sapevano bene i monaci medievali la cui regola era “ora et labora”, con la meditazione a scandire il tempo della vita lavorativa, dargli forma ed ancoraggio. Il rimedio è proprio il recupero di una dimensione contemplativa che accompagni e liberi la “vita activa”, le conferisca respiro e spirito, “profumo” e tessitura. Un recupero alla maniera di Proust, fatto di interconnessione tra gli eventi, di cammino e di intervalli di meditazione.
Riapprendere insomma quell’ “arte di indugiare sulle cose”, che è precisamente il sottotitolo di questo piccolo, stimolante saggio.
(Articolo pubblicato su Biblioscalo)