Vivendo volando

Local time at destination.

Allacciando le cinture,

su sedili di velivoli

più o meno reclinanti.

Giorni tra meridiani e paralleli

sorvolando, sorvolando

l’ im-mondo, logoro d’ abusi.

Nuvole a pecorelle sottostanti.

Approaching destination

incontriamo turbolenze,

e pulviscolo nell’ aria,

e polvere alla polvere.

Fabbri, non creatori,

immagine e somiglianza,

e capri espiatori,

sopravviviamo, testimoni, 

fino all’ arrivo.

Alleggerendosi

“La’ dove le cose hanno la loro origine, la’ hanno anche il loro dissolvimento secondo necessita’; infatti esse pagano l’ un l’ altra la pena e l’ espiazione dell’ ingiustizia secondo l’ ordine del tempo”.

Anassimandro

 

È come se fosse venuta meno, da qualche tempo, l’ urgenza dello scrivere, così come diverse altre urgenze. È una sorta di ritrarsi, come basato sulla crescente cognizione della inesorabile vanità del tutto e dell’ insensata fatica del vivere. Qualcuno lo ha percepito.

Tengo desti i molti interessi, alimento curiosità ed argomenti, ma nella cornice complessiva di una crescente consapevolezza della complessiva mancanza di senso, di una rassegnazione all’ inutilità quasi ontologica, metafisica, di questa fatica.

Il percorso davanti mi si delinea sempre più in una prospettiva di astinenza, che si manifesta come uno svuotamento, che è al tempo stesso un alleggerimento. Molti dei pesi caricati nel corso della vita appaiono privi di un autentico contenuto di valore, ed è il momento invece di mutare verso una riduzione della zavorra,  perché questo è il tono che si addice a questa fase.

Meno cibo è abbastanza, è un dato di fatto, questo, il poco basta, il metabolismo chiede meno. L’ astinenza rende lucidi e più desti, l’ ottundente sazietà non attrae più come talvolta in passato. Le difficoltà digestive favoriscono indubbiamente  il processo. Gli asceti saranno stati tutti dispeptici ?

Meno e meglio, l’ esperienza semmai aiuta a scegliere, almeno quello, la fase dell’ esplorazione famelica e quantitativa è trascorsa ed ha perso la sua attrattiva, quello che affascina adesso è la possibilità di esercitare l’ arte sottile della distinzione, giocare sugli aspetti sottili della selezione.

Ciò che sopravvive al trascorrere degli anni è un distillato di ciò che si è assorbito ed elaborato nel tempo, filtrato attraverso l’ esperienza ed il disincanto. Nulla più appare urgente, tutto può attendere affinché sia operata una scelta paziente e saputa. Non ha senso cercare di aumentare ancora il bagaglio, è più opportuno selezionare nel bagaglio stesso ciò che è radicalmente proprio, da tenere con sé in quanto indispensabile al carattere. Da portare sull’ isola deserta.

Il punto irrimediabilmente debole di tutto ciò è il desiderio che rifiuta il governo, così come lo ha sempre rifiutato. Il desiderio che no, non invecchia e non s’ arrende, e che si può solo sperare, alla bell’ e meglio, di governare. Servirebbe la condivisione, l’ amicizia vera, per esercitare nel confronto e nell’ affinità un tale esercizio selettivo, secondo scale di valori e canoni di riferimento tutti da rivalidare.  Ed invece, pare che nel bagaglio qualcosa di così essenziale venga a mancare.

L’ urgenza compulsiva, la velocità e voracità che non tolleravano lacci e pastoie non hanno dato spazio alla disponibilità, all’ ascolto, alla presa in carico, all’ alimentare necessari rapporti in un vivere frenetico e desiderante.

Tutto si tiene e tutto si paga, nell’ ordine supremo delle cose, come sapeva Anassimandro. Secondo l’ ordine inesorabile del tempo.

Contatti

Le vite si dispiegano nello spazio della realtà lungo traiettorie complesse ed irregolari, ciascuna a modo suo, spinte dalla necessità, dalle circostanze o più raramente da qualche inclinazione interna propria a ciascuna.

Nel percorrere le loro imprevedibili o talvolta prevedibilissime traiettorie, le vite a volte si sfiorano, entrano in contatto per un breve periodo prima di separarsi nuovamente, altre volte invece si attaccano l’ una all’ altra per un tempo più lungo, a volte persino rimangono attaccate.

Nel toccarsi e separarsi, certe vite sembrano a volte rincorrersi, cercarsi, mostrano strane attrazioni il più delle volte inconsapevoli. Può persino accadere che solo nel momento di un nuovo incontro, solo quando le traiettorie di nuovo si intersecano, solo allora si rendono conto di essersi a lungo cercate. Il che, naturalmente, non comporta alcunché, né impedirà loro di staccarsi nuovamente se a questo dovesse portare il gioco del caso, delle circostanze o delle inclinazioni.

Di questo conserveranno però memoria, come una sorta di sigillo, un’ impronta speciale e permanente che a volte, rare volte, le anime, senza intenzione o consapevolezza, incidono  le une sulle altre.

E’ un privilegio e non lo sanno.

Un po’ di bianco trascendente

Passo Manina

Il sudore, ci vuole. È la fatica, la misura del valore di tutte le cose, la manifestazione oggettiva del nostro tenerci. Ci vuole il sacrificio, che è poi ciò che serve a “rendere sacro” qualcosa. Attraverso il sacrificio si arriva a ciò che è sacro, e che va trattato con rispetto, il sacro ci mette un attimo a diventare esecrabile, l’ etimologia non tradisce mai. Fatica, cura, dedizione, passione, sacrificio, parole che si compongono assieme.

Questo penso, mentre avanzo piano, un passo alla volta, il piè fermo sempre il più basso.

La valle è in ombra, il freddo intenso, ma il maglione di pile e la giacca a vento fanno un buon lavoro, e la fatica ci mette il resto. Il sudore mi cola dalla fronte, insomma, mentre avanzo a fatica su per la salita. Il bosco di conifere è fitto, persino la luce fatica a filtrare, in questo sottobosco umido e ricoperto di aghi non cresce praticamente nulla, neppure gli alberi stessi riescono a rinnovarsi. Il taglio del bosco è utile al bosco stesso, questa è una cosa che un cittadino, sia pure cresciuto a pane ed ecologia, difficilmente riesce a comprendere.

Freddo, ombra e fatica, dunque. E silenzio, naturalmente, perché le valli in ombra sono le meno frequentate, e qui non ci viene proprio nessuno. Ma la montagna quasi mai delude, ed ecco che dopo un ultimo e faticoso strappo il bosco si apre, o fu aperto dai taglialegna molto tempo fa e mi trovo in una radura dolcemente ondulata.

Al centro della radura, una piccola baita di legno, chiusa ed evidentemente disabitata. Sopra ed intorno, la neve ha coperto tutto assecondando con morbidezza le curve del terreno, nascondendo le asperità rocciose, quasi come se fosse stata la montagna stessa a volersi addolcire, in un incongruo moto di empatia.

Sulla neve, nessuna traccia, solo neve primitiva, ignara, persino rozza nella sua ingenua innocenza. Né uomini né animali hanno violato questa bianchezza su cui solo adesso, proprio adesso, il sole arriva a battere.

Le gocce di sudore salato raggiungono le palpebre, entrano negli occhi, costringono a strizzarli, bruciano, il sudore genera lacrime, sembra quasi una metafora, e mentre mi sforzo per mantenere lo sguardo limpido, i raggi del sole sembrano superare le esitazioni iniziali, e trionfalmente inondano la radura innevata, scovano ad uno ad uno i milioni di cristalli di ghiaccio e ad uno ad uno li fanno scintillare come diamanti, o come milioni di microscopiche stelle adagiate sulla neve. Uno sfarfallio, un caleidoscopio di luci, un accendersi e spegnersi fulmineo di minuscoli abbaglianti puntini luminosi, rendono la radura uno scenario magico ed irreale.

La bellezza toglie il fiato, sospende il respiro, e proprio questo è il senso della parola “estetica” questa bellezza pura ed assoluta, bellezza che è il punto di contatto fra l’ umano e il divino. Per incontrare il divino, bisogna venire dove gli dei dimorano, e bisogna arrivarci attraverso un percorso, parlare di pellegrinaggio può sembrare blasfemo, ma insomma serve il sudore e la purificazione, la rigenerazione attravesrso la traspirazione, che allontana le tossine, ma anche rabbie e risentimenti, miserie e gelosie. Tutto resta a fondo valle, la salita è come la muta di un serpente, e forse proprio per questo qui, proprio qui, davanti ai miei occhi, la trascendenza si manifesta.

Sandro

Freiburg

Nel non credente il pregare coincide con il venir meno della parola. Si svolge il discorso (per chi si arrischia sul serio) finché ci si arresta dinanzi alla Cosa. E allora si tace. Che si può dire ? Niente. Ma questo niente può suggerire il pensiero che la Cosa c’è ed è un bene che ci sia e allora avrà il timbro della “bene-dizione”

Massimo Cacciari

Sandro era certo che gli esseri umani sono buoni, e che se trovano le condizioni opportune non possono che esprimere questa bontà. Era anche convinto che le istituzioni sociali e politiche raramente aiutino gli uomini ad esprimere la loro bontà, ragione per cui meno ce n’è, di istituzioni, e meglio è. Non saprei dire se fosse davvero un anarchico, a volte l’ ho pensato, altre volte mi sembrava troppo pragmatico per esserlo realmente fino in fondo. Di certo stava con Rousseau contro Hobbes, dalla parte dei libertari e contro i liberisti.

Sandro era convinto che le persone dovessero avere il diritto di vivere la loro vita a modo loro, fintanto che non avessero fatto del male a nessuno, e che una società evoluta dovrebbe tollerare, se non addirittura favorire la massima diversità di comportamenti, costumi e credenze, e dovrebbe evitare il più possibile l’ uso della parola “vietato”.

Era curioso delle persone, ogni incontro casuale era l’ occasione per iniziare un dialogo, trovare un canale di comunicazione, confrontare le idee e le convinzioni di chiunque gli capitasse a tiro.

Sandro era convinto che una società ingiusta e diseguale non ha futuro, che nessuno può stare veramente bene se attorno c’è gente che sta veramente male. Nel suo linguaggio c’ erano sì parole come welfare, ridistribuzione, equità, ammortizzatori e diritti, ma dietro queste parole e dietro le sue teorie politiche, dietro le sue iniziative ed i suoi interventi polemici c’ era la sincerità del sentire, c’ era la compassione e la fraternità col genere umano.

A Marx preferiva Hannah Arendt, il suo stile di vita era la “vita activa”, impegnata a fare la propria parte, sempre, ansiosa di mettere le mani nel mondo per farne un posto migliore non per se ma per tutti. Questo significava “politica” per lui, un significato che molti grandi del passato, da Cicerone a Dante avrebbero apprezzato.

E tuttavia, la passione politica non gli ha mai tolto l’ allegria del sorriso, la sua ironia si manteneva sempre leggera, l’ amarezza del sarcasmo non gli apparteneva. L’ eterno sorriso di Sandro è stato per me il simbolo del suo amore per la vita.

Conosceva il mondo e la complessità della natura umana, e non distoglieva lo sguardo. Non semplificava e non giudicava, la curiosità lo portava a cercare comprensione e partecipazione. Era di sinistra, geneticamente, di quella sinistra fatta di principi non negoziabili, di libertà, fraternità ed uguaglianza che oggi pare una specie in via di estinzione, tanto più rara quanto più appare necessaria .

Era capace di amicizia vera, quella che non ha bisogno di conferme, o di continuità di contatti, e nell’ amicizia come nella vita portava in dono quella curiosità, quell’ allegria e quell’ amore per la vita, che restano, chiari e distinti, nell’ animo di chi lo abbia frequentato.

Sono contento di essere stato suo amico.

In memoria di S.I., 1950-2013

Al canto del gallo

Mi sveglio all’ alba, anche prima, per motivi che non riconosco. Lascio il letto e mi aggiro per casa, in una condizione di sensibilità esaltata dall’ assenza di stimoli esterni. Poche macchine per strada, e ciascuna si staglia contro lo sfondo del silenzio come se fosse un’ ombra cinese proiettata su di un fondale candido.

La pendola nella sala, la pendola del nonno, assume un ruolo da protagonista, il ticchettio sembra fatto di colpi di martello ed il rintocco delle ore e mezze ore pare levarsi come quello di campane d’ un duomo medievale. Il contrasto col silenzio del mondo esalta ogni minimo suono, rumore, scricchiolio, ogni fruscio ed ogni sibilo. Puoi toccare ogni rumore come vedere le stelle in una notte serena in alta montagna, sapendo che sono lì dove sono sempre state, ma com’ erano soffocate dall’ eccesso di luci, non le si vedeva in pianura.

E mi viene anche da pensare a quanti simili eccessi ottundono i sensi ed inebetiscono le percezioni, anestetizzando la capacità di distinguere, isolare, riconoscere, una sorta di deprivazione cercata, voluta, perseguita rende giustizia alla ricchezza attraverso la povertà, esalta i sapori del mondo, riabitua alle distinzioni, al riconoscere le differenze.

Suoni isolati, distinti, enumerabili prendono il posto di un rumore di fondo inconoscibile ed insapore. Impoverirsi per arricchirsi, sembra una contraddizione ma non lo è, almeno stamattina.

In questo silenzio prima dell’ alba, mentre in lontananza si ode distintamente un gallo cantare, da insonne mi sento ricco.

Volo in discesa

 

Cambia le cose il tempo,

logora i tendini, assottiglia il legno,

amaro al palato è il ricordo

di dolci promesse avverate.

Stiamo arrivando, in discesa

lentamente planando

in vacue percezioni

di buio animale

si perde quota. È condanna,

che liquida il sogno

librato,  provvisorio,

volatile precario,

i muscoli metallici

pesanti più dell’ aria.

La gravità è destino,

spasmo d’ attrazione,

irrealtà concreta

e quotidiana.

Il/limitato

illimite

Volevo provare i confini della realtà, volevo vedere a che punto potevo arrivare. Tutto qui, solo curiosità.

Jim Morrison

 

Il limite non è chiusura, ma apertura, esiste più che altro come stimolo intellettuale, o fisico. Il limite è una provocazione, un punto di sfida alla curiosità. Ogni porta chiusa rappresenta un invito ad aprirla.

Eccoti in riva al mare, sul bagnasciuga. Hic sunt leones. Nec plus ultra. Non proseguire oltre, fermati, questo è il tuo limite. Cosa rappresenta questo se non uno stimolo irresistibile a proseguire ? Cosa c’è dall’ altra parte ? E perché mai non dovrei andarci ?

Come dinanzi ad ogni porta chiusa, la sfida consiste nel trovare la chiave, oppure il modo di scardinare, e la motivazione, semplicemente, nel cercare di sapere cosa c’è dall’ altra parte.

Non siamo animali stanziali, non lo siamo mai stati se non nell’ ultimo, brevissimo insignificante periodo della cosiddetta civiltà, un battito di ciglia nella storia di una specie umana che invece ha sempre trovato il senso del proprio destino nell’ esplorazione, cioè nel viaggio. Animali migratori che si fanno domande, bestie curiose in cerca di scoperte, tastando il limite giusto per avere un motivo, qualcosa da superare, uno stimolo ad escogitare, a produrre, a creare.

Creare è produrre qualcosa dal nulla, giusto, ma allora per fare questo prima occorre sentire che ciò che c’è non basta, occorre una mancanza ed un desiderio. Ci vuole una porta chiusa, insomma, che è la domanda perfetta. La curiosità è mancanza, desiderio e stimolo, frusta e sperone.

Può diventare ossessione ?

È questo, proprio questo, il punto. Superare un limite per il gusto di superarlo, per la gioia dell’appagamento, per vedere cosa c’è di là, produce assuefazione, e dipendenza. Superata una porta chiusa subito si va alla ricerca di un’ altra, e poi un’ altra ancora, è questa la dipendenza. E la nuova sfida deve rilanciare, alzare il livello, essere più impegnativa e temeraria, comportare maggiori difficoltà e rischi. È questa l’ assuefazione.

Qualunque cosa arricchisca la vita può degenerare, diventa tossica nel momento esatto in cui ribalta il mezzo col fine e diventa essa stessa, da mezzo, fine. La ricerca fine a se stessa del limite sempre nuovo è una droga, e, come ogni droga, anche un anestetico. Nasconde e copre il dolore. Stimolare certe sensazioni può essere un modo ingegnoso per attutirne altre. La musica a volume eccessivo serve a non ascoltare, il sonnifero serve a non sognare, se i sogni rischiano di essere incubi.

Cosa c’è  dunque dietro a questa ossessione per il limite ? Quale sofferenza si nasconde per non farsi vedere ? La ricerca di limiti esterni non può essere forse un diversivo che distoglie l’ attenzione dal limite interno, da una mancata accettazione di se e della propria finitezza, dei propri stessi confini, che si può cercare di espandere, come gonfiare un palloncino, ma che non si possono davvero rimuovere ?

L’ insoddisfazione profonda, il rifiuto di specchiarsi e riconoscersi si proietta all’ esterno in sfide e tentazioni, irrequietezza e curiosità. Il blocco è una vita non condivisa, un peso sempre addosso, una colpa di vivere irredimibile ed angosciante, un dovere di riscatto ancora più terribile in quanto privo di vere motivazioni.

Non c’è maggior colpa che l’ esser nati, diceva Calderòn, e questo peso, questo carico richiedono una risposta nella forma di un’ assunzione di responsabilità rispetto a cui il limite esterno è una sfida assai più oggettivabile, e dunque, paradossalmente, più gestibile, maneggiabile, dominabile.

Utilizzabile forse, addirittura.

Pendoli e Mareggiate

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Gli alti e bassi dei rapporti umani talvolta seguono il moto violento di un oceano in tempesta. Rapporti a lungo trascurati si riconfigurano come provvidenziali ancore di salvezza quando altri ormeggi sono stati strappati dalla furia delle onde. Ci si sarebbe dovuto curare prima, di questi rapporti, rafforzarli, confermarli invece di trascurarli, non si sarebbe dovuto accettare di congelarli, o peggio, troncarli.

Per fortuna il cuore umano sa talvolta essere grande, e non solo spietato, ed il bene sepolto ritorna alla luce, ancora capace di germogliare nonostante l’ incuria di anni. Il giardino rifiorisce di nuova ed imprevista vita, improbabili germogli rompono la crosta compatta di sabbia e di sale, a significare che la vita è forte e che, a volte, si raccoglie più di quanto si sia seminato.

Non resta che accogliere commossi il dono immeritato, contriti ripromettersi di mantenere ben vivi, questa volta, appigli e legami, ben sapendo che l’ improvviso divampare di nuove passioni al momento imprevedibili rischieranno di incenerire, una volta di più, questa insperata vegetazione, perché tale è la natura inaffidabile ed imperfetta del cuore umano.

Viene da chiedersi anche se in tutte le forme di relazione umana, e non solo quella forma particolare ed estrema che è la relazione amorosa, sia inevitabile un certo grado di asimmetria, un prevalere di una parte rispetto all’ altra, uno sbilanciare che, invece di segnalare una patologia della relazione, ne attesti invece l’ esistenza, come se fosse essa stessa la condizione che la rende possibile.

L’ attenzione è più forte da una parte rispetto all’ altra, e questo genera una tensione, uno sforzo direzionale, crea dal nulla l’ oggetto del desiderio, che per essere tale, cioè desiderato, occorre che sia per ciò stesso mancante e non posseduto. Lo sappiamo da millenni.

E dunque, quando l’ oggetto del desiderio s’ avvicina fino a diventare oggetto del possesso, in quel preciso momento la relazione subisce una torsione repentina, col desiderante che allenta la presa ed il desiderato, spiazzato da questo calo di tensione, che si protende a sua volta.

Mai contenti, insomma, come si conviene alla natura storta e pericolosa dell’ essere umano.

A parti invertite l’ asimmetria della relazione viene ristabilita, fino a che un’ oscillazione, o mareggiata, più violenta delle altre non strappi ancora gli ormeggi, ovvero lo smorzarsi delle oscillazioni conduca il rapporto nell’ intorno di un qualche punto di equilibrio. Stabile, si spera, e non insipido.

Vorrei avere scritto questo post

Devo fare una confessione.

A volte mi sembra di volere delle cose, non so, leggere un certo libro, andare in un certo posto, vedere un amico, qualsiasi cosa. E lo voglio veramente, intendiamoci, non è che ci sia sotto una specie di autoinganno, è un interesse autentico per quella determinata cosa, è curiosità vera, desiderio sincero, quello che volete. Insomma, voglio DAVVERO fare quella cosa.

Cerco l’ occasione, il tempo, il momento, a volte non è facile fare posto, ma insomma se uno davvero vuole, alla fine trova il tempo ed il modo, e quindi non di rado mi trovo a fare davvero ciò che ho desiderato.

Qualche volta però, nel momento in cui il desiderio si realizza, nel preciso istante in cui inizio davvero a fare qualcosa che desideravo così tanto fare, in quel preciso istante sopraggiunge una sorta d’ impazienza. Impazienza che il film arrivi alla conclusione, che la visita si concluda, che la mostra arrivi all’ ultimo quadro, il libro all’ ultima pagina. Non è sempre così, per fortuna, ma qualche volta capita. Lo confesso.

Una specie di frenesia di compimento, il pensiero già rivolto a quale cosa fra le restanti, dedicarsi subito dopo. Insomma è come se il “desiderio di fare” che è, va detto, un desiderio assolutamente autentico, si rivelasse al momento della sua attuazione come un “desiderio di avere fatto”.

Fare una cosa vuol dire sceglierla nel mare indistinto delle potenzialità per depositarla, come un precipitato chimico sul fondo della realtà. Nell’ oceano di libri che potrei leggere, dei film che potrei vedere, delle visite che potrei fare, delle persone con cui potrei parlare, una ed una soltanto è quella che scelgo di fare, e quella scelta è una scelta necessariamente esclusiva.

E’ proprio l’ esclusione a generare insofferenza. È l’ incommensurabilità tra l’ universo infinito delle possibilità e la finitezza delle esperienze della vita. Sapere, e confessare a se stessi che gran parte delle scelte scartate nell’ attimo presente rimarranno scartate per sempre perché il contenitore esistenziale è quello che è e non di più.

E si vorrebbe pertanto riempirlo un po’ di più, forzarne i limiti, accelerando i tempi di ingestione e digestione dei contenuti.

È una follia, ovviamente.

Una follia in primo luogo perché è una gara che non si può vincere, per quanto ci si sforzi, la sproporzione fra finito ed infinito non muta, resta pur sempre incongrua.

Una follia anche perché l’ accelerazione è antagonista della profondità, certe cose richiedono tempo se le si vuol conoscere, ogni cosa in grado di avere un’ anima ha il suo ritmo che va rispettato, ed io lo so benissimo, è quello che cerco nelle lunghe camminate in montagna, no ? Altrimenti è come un tour organizzato “best of Italy” di cinque giorni ed il turista di fronte al Colosseo chiede conferma “E’ martedì quindi siamo a Roma, giusto ?” Giusto. È il secondo giorno del tour e quindi è Roma, fosse il quinto sarebbe, che ne so, Venezia.

È così che si vuol vivere ? Certamente no.

Ed allora, perché questa inquietudine del fare, anzi, dell’ aver già fatto ?

Servirebbe un po’ di pazienza, a volte…