Perdere è un po’ tradire …


La parola “perdere” ha molti significati all’ apparenza del tutto slegati.

Si può perdere un gioiello, nel senso di smarrirlo, si può perdere il treno ma non lo si smarrisce, si può perdere una persona cara quando muore e si può perdere una partita a scacchi senza che muoia nessuno. Si può perdere una battaglia e si può perdere la vita in battaglia. Si può perdere il campionato all’ ultima partita, e la gara all’ ultimo secondo. Si può perdere un amico  e si può perdere la donna amata.

La  parola ha una radice antichissima che vuol dire, più o meno, “dare al contrario”, con l’ idea di qualcosa che va a male, al contrario di come dovrebbe, che non va per il verso giusto.

Curiosamente, la stessa radice si ritrova nel verbo latino “prodere” che vuol dire tradire, ed è sopravvissuta nell’ italiano “proditorio”.

Tuttavia, a pensarci bene, l’ unica cosa che hanno in comune tutte le forme di perdita elencate prima, è proprio quel gusto amaro, quella delusione, quella sensazione di tradimento.

Quasi che la perdita derivasse da una mancanza o insufficienza di cura verso le cose, o delle cose verso di noi.

20 commenti su “Perdere è un po’ tradire …

  1. poetella ha detto:

    sì…
    concordo

  2. deorgreine ha detto:

    E infatti alla perdita solitamente si somma la delusione, proprio come quando si viene traditi.

    • melogrande ha detto:

      Esatto.
      La sensazione che le cose sarebbero potute andare diversamente da come sono andate, e che ci sia, oscuramente, una qualche colpa in questo.

      • deorgreine ha detto:

        Se così fosse, allora significa che non sempre l’inevitabile è inevitabile. E si ritorna a quella questione sul poter scegliere che a pensarci bene, non ha soluzione. Perdere può dipendere o non dipendere da noi, possiamo esserne o non esserne colpevoli. E se anche fosse che dipende da noi, non è detto che questa sia una colpa.

        • melogrande ha detto:

          Su colpa, destino, fortuna, sorte, fato e libero arbitrio si potrebbe parlare per secoli…
          Non c’è soluzione, ma non conosco tema più affascinante.

  3. m0ra ha detto:

    Mi torna in mente la vicenda di Giobbe a cui viene tolto tutto, le cose materiali, gli affetti e la salute. Giobbe resta sereno fino a quando…? Fino al momento in cui i suoi amici gli mettono la proverbiale pulce nell’orecchio dicendo che se Dio gli ha tolto tutto è perchè ha peccato, altrimenti non lo avrebbe colpito. La perdita diventa la prova della sua colpevolezza. Allora Giobbe che si ritiene innocente perde la serenità, chiede a Dio una spiegazione, impreca per il silenzio. Alla fine Dio risponde con delle domande che chiedono in sostanza a Giobbe di accettare il mistero della sofferenza senza cercarne un ‘perchè’. Il percorso di Giobbe è esperienziale, dalla perdita acquisisce un senso più profondo di fede e di speranza.
    E’ il sentimento di ingiustizia più della perdita in sè a togliere serenità e farci sentire traditi. Penso che il sentimento di perdita sia uno dei più potenti per innescare un processo di consapevolezza di sè, della propria limitatezza e della mancanza di risposte univoche all’esistenza.

    • melogrande ha detto:

      A Giobbe non avevo pensato, la l’ osservazione è giustissima. La sensazione che ci sia una colpa dietro la perdita. Una colpa, sia chiaro, non necessariamente è legata ad una responsabilità, un po’ come Edipo che si acceca, perde volontariamente la vista dopo avere scoperto la sua colpa.
      Grazie.

  4. lillopercaso ha detto:

    Giusto! e infatti, la risposta a “Ho perso..!” oppure: “L’ho perso…!” è: “Che peccato!”
    Che anche peccato (che in Inglese si traduce con più termini) è una parola interessante, ho controllato (Melo, sei contagioso): deriva da un difetto involontario; mentre “colpa” da una scelta precisa.

    Ma che strano, mi pare di essere già intervenuta in questo post… ma forse era un commento, ora approfondito.

    • melogrande ha detto:

      La colpa non necessariamente deriva da una scelta.
      Al contrario, in termini giuridici “colposo” vuol dire che non l’ hai fatto apposta.

      Ci può essere colpa senza intenzionalità, è’ un’ idea molto più complessa della “responsabilità” pura e semplice.
      Pensa solo al peccato originale, l’ idea di essere colpevoli per qualcosa che non abbiamo fatto noi, e di cui certamente non abbiamo “responsabilità” nel senso che non deriva da una scelta individuale.

      Magari prima o poi vale la pena di scriverci un post.

      • lillopercaso ha detto:

        Ah, allora ho letto male.
        E’ vero, in termini giuridici c’è il reato colposo e quello doloso, ben più grave.
        Però la colpa è una cosa che ci rode dentro se siamo stati malvagi (per i nostri parametri) intenzionalmente; Altrimenti, no.
        Invece il peccato ci pesa come mancanza nei confronti del Dio che temiamo e in cui crediamo; nel caso del peccato originale (che di solito è chiamato peccato e non colpa) abbiamo responsabilità in quanto Umanità, ma se ci prendiamo come individui si tratta proprio di un ‘difetto’ (mancanza) involontario.
        Mo’ ci scopriamo teologi.

  5. lillopercaso ha detto:

    (Ps: urge tua presenza di là!)

  6. guido mura ha detto:

    Certo che noi umani ci tormentiamo proprio per bene, dopo aver mangiato il maledetto frutto o aver toccato il monolite. Com’è possibile non essere colpevoli se si è sempre condannati a morte? Kafka ci diventava matto pensandoci. Così s’inventava una condanna paterna o una sensazione di consapevolezza per cui si desiderasse, alla fine, la punizione. La nostra logica esigerebbe la soddisfazione del nostro senso di giustizia. Ma poi siamo ben consapevoli che questo è utopistico. La risposta del narratore manzoniano alla frase di Renzo «A questo mondo c’è giustizia finalmente» non può che essere: «Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.»

  7. Ci sono perdite a cui tenti di prepararti per tutta la vita: i distacchi, i saluti definitivi sono scritti dentro la nostra finitudine e lentamente li assorbi come una dolorosa inevitabilità.
    Poi ci sono perdite a cui non sai rassegnarti perché irrompono improvvise a cancellare, se non le certezze (merce rarissima, che non ho mai ‘acquistato’), certo le abitudini, quelle che ti fanno pensare che il giorno dopo sarà simile al giorno prima. Sono queste perdite a colpirti come un tradimento.
    Terremoto docet.
    Un saluto grande a te e alla tua pagina di lettori.
    zena

    • melogrande ha detto:

      Terremoto docet sì.
      Così come (in altri tempi) guerra e carestia, oggi (forse) catastrofi finanziarie.

      “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante”.

      Un saluto ed un grosso in bocca al lupo.

  8. capehorn ha detto:

    Concordo con quanto scrivi e aggiungerei anche che l’ultima frase é quella che più accorda l’intero intervento.
    Dopo aver frequentato l’approssimazione e per dirla come é costume oggi, dopo averla sdoganata, finalmente siamo approdati all’incuria, della quale troppi sono profeti.
    La prevalenza dell’incuria che mostriamo per noi stessi, gli altri e le cose che ci circondano.
    Non si cura poi tanto la forma verbale, non si ricerca la forma comportamentale, ma tutto é lasciato in balia del momento, usando lo sdrucito alibi della libertà d’opinione, di pensiero, d’azione.
    Per poi piangere forte e addosso, disperando delle perdite subite, non tenendo conto che non é ragionando in termini di: “Ah, se avessi fatto … Se avessi detto…” bensì agendo per non fare in mondo di arrivare a quel punto che le perdite, risultino meno gravi , onerose e dolorose di quello che sono.
    Perdere é nel ciclo della vita. Sta a noi diminuirne o attutirne gli effeti.

  9. […] è discusso da queste parti, un po’ di tempo fa, sul fatto che la parola “perdere” abbia molteplici […]

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