Fortuna, ci vuole


 

 
C‘ è sempre un’ ambivalenza di fondo, per non dire uno strabismo, nei confronti di ciò che accade.

Da un lato la rivendicazione orgogliosa del libero arbitrio, dell’ essere padroni della propria vita, saldamente sul ponte di comando della nave ammiraglia, come l' ammiraglio Nelson.

Dall’ altro, il senso di ineluttabilità del fato, ciò che deve accadere accade, senza chiedere permesso. Ananke, Necessità, è più forte degli dei. Zattera in balia delle onde, naufrago, altro che nave ben governata. 

Fortuna, ci vuole.
La quale fortuna, manco a dirlo, ha a sua volta un’ etimologia alquanto ambigua.
Fortuna viene da “fors”, da cui proviene, ovviamente, “forse”. E già partiamo male.
Fortuna, dunque… forse.
Ma la stessa radice la troviamo in termini disparati assai quali “fortuito” (e ci può stare), “fertile” o “furtivo”.
 
La radice comune, si sarà capito, è il verbo latino “fero”, uno di quei verbi multiuso come coltellini svizzeri, tipo l’ inglese “get”.
Fero” significa primariamente “portare”, ma con tutte le espressioni ausiliarie di questo: portare a, portare verso, portare via da, apportare, comportare, deportare, sopportare e così via.
Un verbo dunque assolutamente appropriato per caratterizzare la sorte che dà e che toglie, che porta oppure porta via, con la medesima indifferenza.
 
Come affrontare una cosa del genere ?
Con rassegnazione e fatalismo ?
Non necessariamente.

La rassegnazione porterebbe a dire che è tutto uguale, e se tutto è frutto del caso, e se il caso arriva addosso come imprevedibile necessità, allora a che scopo dannarsi l’ anima ?
 
Ducunt volentem fata, nolentem trahunt” è una frase di Seneca, si trova in una delle lettere a Lucilio, ma lui stesso dice che si tratta di un pensiero di Cleante. “Il destino conduce chi acconsente, trascina chi resiste”.

Mai avuta troppa simpatia per lo stoicismo, confesso, ma su questa frase un po’ viene da pensare.
Che vuol dire ?
Sembra a prima vista che Seneca stia menando il can per l’ aia. 
Dov’è poi questa gran differenza fra essere condotti ed essere trascinati ?
È una specie di “fatalismo temperato” ? O altrimenti che cos’è ?

Sembra suggerire che una differenza in fondo la si può pur fare, e la si può fare attraverso l' atteggiamento. Apertura o chiusura, non è la stessa cosa.
 
Ci fu il tempo dell’ illusione meccanicista.
Date le condizioni iniziali e con un’ adeguata capacità di calcolo, dovrebbe essere possibile prevedere qualunque cosa.
Ad esempio prevedere il momento esatto in cui il vaso di gerani, sotto la spinta del vento, vincendo il coefficiente di attrito, porterà il suo baricentro oltre il bordo del davanzale, calcolarne la traiettoria esatta di caduta e determinare se e in che misura intercetterà la mia testa mentre sto passando di sotto. Altro che caso, questa è necessità bella e buona.
 
Ma il fatto è che le condizioni iniziali sono sempre troppe e troppo interconnesse, la capacità di calcolo non è mai abbastanza, un battito d’ ali di farfalla in Perù può causare una tempesta in Asia, ormai lo sappiamo, e la parola d’ ordine oggi è semmai “complessità”. Per di più, abbiamo imparato anche che la precisione con cui è possibile misurare le cose non può essere aumentata all’ infinito. Esiste un limite, un margine di indeterminazione insito nella natura del mondo.
 
Né in teoria né in pratica, dunque, si giungerà mai a calcolare tutto.
Già ce la passiamo male a prevedere se pioverà domani. Sì, è certo, anzi altamente probabile. E poi invece non piove.
Ma un evento meccanicamente determinato, che però non si sappia calcolare e prevedere, è poi tanto diverso da un evento fortuito ? Ai fini pratici cosa cambia ?
E dunque, ci vuole fortuna, o un John Malkovich che ci rimandi indietro.
 
E torniamo al punto.
 
È una questione di atteggiamento.
Perché un problema è quasi sempre – anche – un’ occasione. un’ opportunità per vedere le cose diversamente da come uno le ha sempre viste.
Un po’ come il viaggio di Ulisse, se vogliamo. Sfortunatissimo, certo,  ma ricco, e ricco proprio in virtù di quelle sfortune. E se Ulisse avrebbe forse volentieri cambiato la sua sorte con quella di un tranquillo contadino, di contro è rimasto – lui – nell’ immaginario collettivo nostro come la quintessenza dell’ eroe avventuroso.
Immortale, idealizzato, invidiato persino, perché no ?
 
Mi raccontarono una volta un aneddoto.
Nei primi anni Ottanta la Toyota s’ era messa in testa di sfondare nel settore delle auto di lusso.
Così nacque la Lexus, che sta per “Luxury Export U.S.”, tanto per dire il target.
Con tutto il perfezionismo e la tenacia di cui erano capaci i giapponesi dell’ epoca, un team di 1,500 tecnici ed ingegneri studia, progetta, costruisce prototipi, collauda, tutto deve risultare assolutamente impeccabile, la cosa è seguita personalmente dal grande capo, Eiji Toyoda, nientemeno.
Cinque anni e un miliardo di dollari dopo, a macchina praticamente finita e pronta per la produzione, arriva la mazzata.
 
Giusto in quegli anni si era affermato, dopo un po’ di polemiche iniziali, l’ uso dell’ airbag, a partire, manco a dirlo, dagli Stati Uniti.
Può una macchina come la Lexus debuttare senza questo accessorio ?
È chiaro che non può.
Il problema è che per alloggiare l’ airbag il piantone dello sterzo deve diventare molto più largo, col risultato di nascondere alla vista del pilota buona parte del pannello degli strumenti.
Panico.
Che fare ?
Qui c’è da riprogettare da capo il cruscotto e tutto il posto guida, rifare il prototipo, i test, rimandando a chissà quando il lancio della vettura.
Che sfortuna.
E chi glielo dice adesso al grande capo ? Che si può fare ?
 
Quello che venne in mente agli ingegneri, dopo avere (immagino) accantonato l’ idea di un dignitoso harakiri collettivo davanti alla Direzione, fu di nascondere ancora di più l’ intero pannello strumenti, farlo proprio sparire alla vista e creare, invece, uno schermo a retroilluminazione sul quale proiettare una rappresentazione olografica degli strumenti stessi. Nientemeno.
Un elegantissimo pannello nero opaco a macchina spenta si animava di futuristiche immagini colorate non appena si inseriva la chiave, una roba degna di Minority Report, ma con vent’ anni d’ anticipo.
Un’ esclusività assoluta.
Fichissima.
Gli yuppies rampanti se ne innamorarono a prima vista.

Che fortuna.
 
Certo, ci vuole fortuna nella vita.
Però farsi condurre e farsi trascinare non è esattamente la stessa cosa, e una fortuna furtaiola può persino diventare una fortuna fertile, almeno qualche volta.

La chiave della fertilità è l’ accoglienza, giusto ? Le condizioni del terreno favorevoli alla germinazione, l’ umidità, la temperatura, il terriccio giusto, non è così’?

Questione di accoglienza e di accettazione, non di rassegnazione.
 
Anche un po’ questione di pazienza, forse.
Quella pazienza che vede in ogni atomo di silenzio la potenzialità di un frutto maturo.
 
 

 

14 commenti su “Fortuna, ci vuole

  1. feritinvisibili ha detto:

    Mi verrebe da dire parole sante, non è un gran contributo alla riflessione il mio, me ne rendo conto, ma hai detto proprio tutto per quello che mi riguarda, è un post come il cerchio di Giotto ((:

    (Pazienza in serbo-croato-bosniaco si dice streplijenie, e mi sono sempre chiesta da dove venisse una parola così arzigogolata per una cosa come la pazienza…)

  2. RedPasion ha detto:

    La chiave della fertilità è l'accoglienza.

    Concetto potente.

  3. SinuoSaStrega ha detto:

    Si dice andare incontro alla fortuna. O forse al proprio destino. Non credo che la fortuna sia cieca, e ciecamente s'introduca nella nostra vita. D'altro canto non  esiste  essere umano tanto astuto e forte da allontanare la sfortuna o un destino avverso. Penso che l'uomo e il suo destino si plasmino reciprocamente; noi spalanchiamo porte in base alla nostra indole e forse nel momento in cui facciamo scelte (o rinunciamo) intuiamo già molto della sorte che ci attende.

  4. orematt ha detto:

    la fortuna già ,propio non ci ho pensato quando ieri ho fatto quello che ho fatto ,come racconto nel mio post di oggi ciao ebuona domenica

  5. Diaktoros ha detto:

    Sorte? Destino? D'accordo. Però nella vita ci si propongono solo alcune alternative, un numero limitato di possibilità, e insieme a queste noi abbiamo a disposizione la nostra capacità di calcolo, che ci consente di valutare la conformità alla nostra natura e alle nostre capacità della strada da scegliere. Per questo è importantissimo conoscere bene se stessi e migliorare costantemente la nostra capacità di calcolare e di giocare, perché di un grande gioco si tratta, infine; grande per noi che ci stiamo dentro, naturalmente, anche se a dimensioni cosmiche le nostre azioni e scelte sono veramente come il battito delle ali di una farfalla. Ma sappiamo che, in una struttura, anche il più piccolo movimento crea reazioni a catena.

  6. melogrande ha detto:

    Una delle persone più s/fortunate del mondo risponde al tema in modo affascinante.
    Vale la pena starlo a sentire.

  7. feritinvisibili ha detto:

    Bellissimo, che forza creativa straordinaria dentro quel rinascere dalle proprie ceneri tante volte nel corso di una vita!

  8. capehorn ha detto:

    Io partirei da Seneca. Da come il fato ci conduce e ci trascina.
    Ci conduce se lo assecondiamo, se siamo capaci di quell'analisi meccanicistica. Se percorriamo gli eventi che ci vengono indicati e all'interno dei quali, giocando poco sulla casualità causa/effetto, navighiamo verso il porto che ci é stato assegnato. O che crediamo essere quello.
    Ci trascina se non lo accettiamo aprioristicamente, se verifichiamo ogni piè sospinto  le infinite regole dalla teoria del caos, quelle ennumeri dei giochi. Più "sapiens faber" che"sapiens sapiens".
    Lottando per un'autoaffermazione, per l'autocoscienza.
    padroni e signori della propria vita.
    Da una parte seguire il fato come il cane segue il padrone. dall'altra come l'animale che sente di essere olocausto.
    Sia nell'un come nell'altro caso la fortuna può rappresentare l'incidente/accidente che per l'alea che la sostanzia, fa si che essa si mostri e dimostri i propri effetti.
    Le nostre azioni si muovono anche incontro alla fortuna, gettandone noi stessi i semi, ma l'attenzione a questa semina non può mai essere dimenticata, sottovalutata.
    La fortuna la plasmiamo e la sfruttiamo se ne abbiamo la capacità, la determinazione, la responsabilità.
    Sta a noi trasformare la potenzialità in realtà.

    Tutto questo se la fortuna ci assiste.

  9. Lillopercaso ha detto:

    Secondo me:  Pazienza… e -sembra contradditorio-  tempismo.  Pare la pazienza dell'agguato, ma sennò mi vien l'esaurimento. Capacità di anticipare per cogliere il momento giusto (mi sento una cronista di calcio!)  E quindi, ci vuole anche orecchio. Perciò, per favore, un po' di silenzio: necessario all'accoglienza
    Sì, sembra contraddittorio, ma non lo è.
    La quadratura del cerchio.

      😮 !! Steve Jobs ha detto…
             PUNTINI !!  😮

  10. Lillopercaso ha detto:

    La pazienza dell' agguato è folle e affamata  ? Mah!

  11. feritinvisibili ha detto:

    Lillo sembra che stai descivendo un gatto: pazienza nell'agguato, capacità di anticipare per cogliere il momento giusto. orecchio, silenzio, la quadratura del cerchio sta nella natura del gatto!
    Steve Jobs vive una vita da gatto? Certo è che tu sai scomporre im puntini le strategie uname e galattiche, per via di quello che hai mangiato da piccola (o lo mangi ancora tutti i giorni?).. dadaumpa!

  12. melogrande ha detto:

    Cape, il libro di Hillman "Il codice dell' anima" ha come sottotitolo "Carattere – Vocazione – Destino.
    Carattere, vocazione, destino, daimon, provvidenza, angelo custode, ascendente, predestinazione, ghianda, impronta, aspirazione, è come se fossero varie facce di uno stesso concetto.
    E il mondo il posto dove tutto questo viene forgiato.

  13. melogrande ha detto:

    Pazienza nell' agguato, lo dico sempre io !

    Lillo, tutti i grandi uniscono i puntini, si sa… 

  14. Lillopercaso ha detto:

    Nei periodi buoni mangio KitKat, in quelli di magra Kitekat.
    Mi sento incompresa!

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